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Home | Archivio mensile ed annuale

maggio 2007

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ESCE L'ULTIMO LIBRO DI  Jaci Burton, WILD, WICKED & WANTON, EDIZIONI BERKLEY HEAT

 Jaci Burton'S LATEST BOOK, WILD, WICKED & WANTON, BY BERKLEY HEAT

Three friends reveal their most intimate secrets in an erotic romance from "an undoubted master."*

They're inseparable friends who share their wildest secrets and dares. The latest bet is the boldest of all: each must sleep with whomever the others have chosen and return with every juicy detail. For divorcŽe Abby it's a pair of sexy veterinarians who are fulfilling their own desire. For heartbreaker Blaire it's the one man she never had the courage to bed. For sensible Callie it's an irresistible stranger. For readers, it's an erotic fantasy come true.

Tre amiche rivelano i loro segreti più intimi in un romance erotico da “una maestra indiscussa“.

Sono amiche inseparabili che ripartiscono i loro segreti e sfide più selvagge. L'ultima scommessa è la più audace di tutte: ciascuna deve dormire con chiunque le altre hanno scelto e ritornare con tutti i particolari gustosi. Per la divorziata Abby è una coppia di veterinarii sexy che stanno soddisfacendo il suo desiderio. Per la rompicuori Blaire è l'unico uomo che non ha mai avuto il coraggio di portare a letto. Per la ragionevole Callie è uno sconosciuto irresistibile. Per i lettori, è una fantasia erotica che diviene realtà.

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ESCE L'ULTIMO LIBRO DI  Hannah Howell, HIGHLAND SAVAGE, EDIZIONI ZEBRA

 Hannah Howell'S LATEST BOOK, HIGHLAND SAVAGE, BY ZEBRA

New York Times bestselling author Hannah Howell returns to the fateful realms of the Scottish Highlands, where a man’s destiny lies in the heart of the woman who once betrayed him…
Beaten and left for dead, Sir Lucas Murray is a man wounded in body and soul. He has brought himself back to becoming the warrior he once was—except for his ruined leg and the grief he feels over the death of the woman he once loved...the same woman who led him into his enemies’ hands.

Dressed as a masked reiver, it is Katerina Haldane who saves Lucas as he battles for his life—and for revenge. Shocked that she still lives, Lucas becomes desperate to ignore the desire raging through his body. And Katerina becomes desperate to regain his trust, trying to convince him of her half-sister’s role in his beating. Lucas is reluctant to let down his guard, but his resistance melts once Katerina is back in his arms…and his bed. Now he must learn to trust his instincts—in battle and in love...

Hannah Howell ritorna ai regni degli altopiani scozzesi, dove il destino di un uomo si trova nel cuore della donna che lo ha denunciato in passato…

Picchiato e lasciato per morto, sir Lucas Murray un uomo ferito nel corpo e nell'anima. E' tornato per diventare il guerriero che era una volta - tranne che per la sua gamba rovinata ed il dolore che sente per la morte della donna amava una volta… la stessa donna che lo ha condotto nelle mani dei suoi nemici.

Vestita come un rapinatore mascherato, è Katerina Haldane che salva Lucas poichè lui combatte per la sua vita - e per la vendetta. Scosso che lei ancora vive, Lucas vuole disperatamente ignorare il desiderio che infuria nel suo corpo. E Katerina vuole disperatamente riguadagnare la sua fiducia, provare a convincerlo del ruolo della sua sorellastra nel suo agguato. Lucas è riluttante ad abassare la guardia, ma la sua resistenza si scioglie quando Katerina è di nuovo nelle sue braccia… e nel suo letto. Ora deve imparare a fidarsi del suo istinto - in battaglia e in amore…

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ESCE IL PRIMO LIBRO DI  Jerry A. Rodriguez, THE DEVIL'S MAMBO, EDIZIONI KENSINGTON

 Jerry A. Rodriguez'S FIRST BOOK, THE DEVIL'S MAMBO, BY KENSINGTON

“Have you ever wondered, Mister Esperanza, about the nature of evil…?”
Nicholas Esperanza couldn’t believe his luck. A winning $30 million lotto ticket took him out of NYPD Homicide and bought him Sueño Latino, a popular salsa club on Manhattan’s Upper West Side. Dancing, drinking, partying, women—every day was a good day. The nights with his girlfriend, Legs, are even hotter. But now, Legs needs Esperanza to do her a solid: find her missing 14-year-old niece, Alina. With that, Esperanza’s luck is about to change.

Before he knows it, Esperanza’s plunged into a dangerous sexual underground of S&M clubs, fetishists, pornography, and murder. Anything can be bought and sold, especially innocence. The most beautiful faces mask the most vicious predators. As the quest gets more personal, and the lines between good and evil blur, Esperanza spirals into the darkest recesses of his soul, to places he never wanted to see. He’s in so deep that turning back is not an option.

With The Devil’s Mambo, Jerry A. Rodriguez delivers a gritty, wholly original urban noir—an adrenaline-charged, erotic thriller that’s as twisted as it is addictive.

“Vi siete mai domandato, Mister Esperanza, circa la natura della malvagità…?„

Nicholas Esperanza non può credere alla sua fortuna. Un biglietto vincente del lotto da 30 milioni di dollari lo ha portato fuori dal Dipartimento di Polizia della Omicidi di New York e comprato Sueño Latino, un popolare club di salsa nell'Upper West Side di Manhattan. Ballare, bere, fare festa, donne - ogni giorno era un buon giorno. Le notti con la sua ragazza, Legs, sono anche più calde. Ma ora, Legs ha bisogno che Esperanza faccia qualcosa di concreto per lei: trovare la sua nipote scomparsa di 14 anni, Alina. Con questo, la fortuna di Esperanza sta per cambiare.

Prima che se ne accorga, Esperanza è immerso in un mondo sotterraneo sessuale pericoloso di club S&M, di feticisti, pornografia e omicidio. Tutto può essere comprato e venduto, particolarmente una innocente. Le facce più belle mascherano i predatori più viziosi. Mentre la ricerca diventa più personale e le linee fra bene e male sfuocano, Esperanza si immerge nei recessi più scuri della sua anima, in posti che non ha mai desiderato vedere. È così in profondità che tornare indietro non è un'opzione.

Con The Devil’s Mambo, Jerry A. Rodriguez ci regala un noir urbano eccitante ed totalmente originale - un thriller carico di adrenalina ed erotico che tanto mutevole quanto coinvolgente.

Book trailer for the novel "The Devil's Mambo" featuring Benny Nieves. www.jerryarodriguez.com

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ESCE L'ULTIMO LIBRO DI  Lucy Monroe, SATISFACTION GUARANTEED, EDIZIONI BRAVA

 Lucy Monroe'S LATEST BOOK, SATISFACTION GUARANTEED, BY BRAVA

Ethan Crane is the best operative the ultra top secret The Goddard Project has. When the going gets tough and the tough retreat, Ethan gets the job done. That is why desk jock Beth Whitney, daughter of the agency chief, avoids him like the plague though she is attracted to the hunk. She had one relationship too many with a macho agent Alan Hyatt, who is now working in the same office as her. However, the Prescott case needs a female to supplement Ethan’s cover and Beth is selected. As she tries to keep their relationship platonically professional, he wants her. His kisses melt her, but it is the phone sex that makes her crave him. As they bond while on assignment, Beth begins to reconsider her rule not to date field agents as Ethan owns her soul but she also remembers Alan stood her up at the alter for a case unbeknownst to Beth, she owns his heart and other body parts too. --- This is a fun espionage romance starring a fascinating female who trusts her life with field agent Ethan, but not her heart as she believes that to operatives the mission always comes first. Ethan is a wonderful hero as he has the image especially with the ladies of James Bond so he knows his toughest case is to persuade Beth he needs her (his bulging pants apparently is circumstantial and not hard core evidence to her). Though similar in tone to the miniseries READY, WILLING, AND ABLE Lucy Monroe provides a tense romantic suspense. (Harriet Klausner)

Ethan Crane è il migliore agente che ha l'ultra top secret progetto Goddard. Quando le cose si fanno dure e i duri si ritirano, Ethan fa il lavoro. Questo è il motivo per cui il topo da scrivania Beth Whitney, figlia del capo dell'agenzia, lo evita come la peste benchè sia attratta da questo fusto. Ha avuto un rapporto di troppo con l'agente macho Alan Hyatt, che ora sta lavorando nel suo stesso ufficio. Tuttavia, il caso della Prescott ha bisogno di una donna per completare la copertura di Ethan e Beth viene scelta. Mentre prova a mantenere il loro rapporto platonicamente professionale, lui la desidera. I suoi baci la fanno sciogliere, ma è il sesso al telefono che la fa desiderarlo. Mentre legano mentre sono sull'incarico, Beth comincia a riconsiderare la sua regola di non dare appuntamenti ad agenti sul campo mentre Ethan possiede la sua anima ma inoltre si ricorda di Alan che l'ha lasciata in piedi all'altare per una ragione sconosciuta a Beth, lei possiede il suo cuore ed anche altre parti del corpo anche. Questo è un divertente romance di spionaggio che presenta una donna affascinante che affida la sua vita all'agente sul campo Ethan, ma non il suo cuore poichè crede che per gli agenti la missione venga sempre in primo luogo. Ethan è un eroe meraviglioso poichè ha l'immagine particolarmente con le signore di James Bond in modo da sapere che il suo caso più duro è di persaudere Beth che lui ha bisogno di lei (il rigonfio nei suoi pantaloni apparentemente è una prova circostanziale e non una prova decisiva per lei). Sebbene simile nel tono alla miniserie READY, WILLING, AND ABLE Lucy Monroe fornisce un suspense teso e romantico. (Harriet Klausner)

Satisfaction Guaranteed

More than just a spy thriller. More than just great sex. This action/adventure puts our hero right smack in the middle of danger -- dating the bosses daughter.
Whether you like action/adventure or sizzling romance you'll find it all in this book
Satisfaction Guaranteed.
A novel by Lucy Monroe.
www.lucymonroe.com

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PER L’AMORE DI UN AVVENTURIERO (Seduced by a scoudrel) di Barbara Dawson Smith

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Anno di pubblicazione in USA: 1999

Pubblicato in Italia da: Arnoldo Mondatori, serie I ROMANZI, numero 503, agosto 2001

Ambientazione: Inghilterra, 1800.

Lady Alicia Pemberton, appartenente a una nobile famiglia caduta in disgrazia, e Drake Wilder, proprietario di una nota casa da gioco e figlio di un’attrice, si sposano scatenando un notevole scandalo nella perbenista società inglese, che non accetta che un proprio membro si mischi alla plebaglia con un matrimonio tanto scandaloso. In realtà esso è frutto di un accordo tra i due sposi:lui cancellerà i debiti di gioco che il fratello di Alicia ha contratto nella sua casa da gioco, evitando quindi che tutta la famiglia venga ridotta a vivere nella più estrema povertà e soprattutto che l’adorata mamma dei due giovani, non molto sana di mente, finisca al manicomio; lei invece lo aiuterà a inserirsi nell’alta società, di cui lui vuole far parte per vendicarsi del padre, Lord Hailstock (amico della famiglia di Alicia) che lo ha abbandonato destinandolo ad essere un figlio illegittimo.

La giovane sposa inizialmente disprezza il marito per la professione non proprio onorevole, ma poi scopre che sotto la scorza da duro Drake nasconde un animo generoso, pronto ad aiutare chiunque ne abbia bisogno senza farglielo pesare. Col tempo l’odio e il desiderio di vendetta lasciano il posto a un vero sentimento d’amore da parte di entrambi, ma a causa di alcuni inaspettati colpi di scena la situazione potrebbe ritornare quella iniziale…

Quando sono arrivata alla fine del romanzo, ci sono rimasta un po’ male… avrei voluto che continuasse, sono rimasta completamente conquista dalla storia e dai personaggi!

Sia Drake che Alicia sono due personaggi segnati dalle difficoltà della vita che si svelano poco a poco anche al lettore, rivelando lati della loro personalità che inizialmente nessuno (nemmeno loro) avrebbe immaginato. Parlando soprattutto di Drake, un uomo che nella scena iniziale, durante il primo incontro con Alicia, appare freddo e calcolatore; si intuisce subito che è mosso da un forte sentimento di vendetta verso qualcuno, che per questo è disposto a fare qualsiasi cosa, anche usare come pedine persone innocenti… dà proprio una sensazione di freddezza e cinismo incredibili, ed è impossibile non parteggiare per Alicia, che al suo cospetto appare la povera preda di un terribile “ squalo”. E invece nel proseguire della storia insieme alla protagonista scopriamo il suo vero volto: un uomo che ha avuto una vita durissima, che ha sofferto molto e che quindi per questo si fa in quattro per aiutare quelle persone che la società considera reietti, assumendoli e dando loro un lavoro dignitoso con cui si possono mantenere, salvandoli dalla povertà a cui la società “bene” li avrebbe condannati: una persona sensibile e altruista che usa la sua ricchezza per fare del bene, ed è l’unico a mostrarsi comprensivo con la malattia della madre di Alicia… ed è da qui che la nostra eroina comincia a provare sentimenti ben diversi dal ribrezzo inziale e che le faranno scoprire anche se stessa. Perchè diciamoci la verità, Alicia inizialmente non è solo la ragazza nobile impoverita che si sacrifica per pagare i debiti del fratello:è una saputella puritana e piena di pregiudizi, cosa inevitabile probabilmente vista la classe sociale in cui è cresciuta, anche se è diversa dalle nobili spocchiose da cui la sua famiglia è stata emarginata dopo le disgrazie che l’hanno colpita. Nel corso della storia non si trasforma, ma matura cambiando il suo punto di vista in modo tale da vedere anche al di là del suo naso, cosa che le permette di maturare l’amore per il marito.

La storia è narrata in modo magistrale,soprattutto in alcune scene, come quella inziale quando Alicia si reca all’incontro con Drake (mi sembrava di essere con lei mentre saliva quella scalinata…), inoltre ho notato che anche la descrizione degli ambienti in cui si svolge la storia è molto accurata e sentita, così che sembra di vederli e viverli davvero.Per quanto riguarda le scene d’amore… mi sono piaciute parecchio!

Tiziana

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FILM TRATTI DA ROMANZI

Ecco a voi un’altra puntata del nostro ormai mensile appuntamento con i libri al cinema!

 

TRE METRI SOPRA IL CIELO ( 2004)

tremetrisopracielo

Regia di Luca Lucini, con Riccardo Scamarcio ( Step),Katy Sauders( Babi)

 

Nella Roma dei giorni nostri si incontrano e s’innamorano Babi, classica adolescente di buona famiglia tutta casa, scuola e amiche, e Step, adolescente teppistello patito di corse in moto e con grossi problemi in famiglia.Nonostante la diversità ( o forse proprio per questo), i due si innamorano e vivono una breve ma intensa storia d’amore che aiuterà entrambi a crescere  e maturare.

 

Tratto dal romanzo best seller di Federico Moccia ( che risale ai primi anni ’90, ma che per anni è circolato tra i giovani di Roma solo tramite fotocopie), il film narra una storia d’amore tra due teen ager e per questo è diventato un cult degli under 20 ( tant’è vero che ha lanciato magliette, borse e gadget di vario tipo, e fatto da apripista alla carriera dell’attore giovane attualmente più quotato in Italia, cioè Riccardo Scamarcio), ma costituisce una gradevole visione ( e una gradevole lettura per chi volesse leggere il libro) anche per persone più adulte, che inoltre vengono introdotte nel mondo abbastanza complesso degli adolescenti di oggi senza retorica ma senza nemmeno la notevole dose di cinismo usata dai mass media in modo esagerato.tre metri sopra il cieloBabi e Step, pur con tutti i loro problemi,non vengono usati come banali cliché ma sono personaggi che trasmettono allo spettatore sentimenti di simpatia, inoltre la loro storia e i sentimenti che sviluppano grazie ad essa sono ben delineati.Qualcuno potrebbe non apprezzare i due attori protagonisti ritenendoli troppo inespressivi,invece a me è sembrato che la loro prova sia stata buona e che abbiano interpretato correttamente i personaggi, dando loro un’anima.

Tema portante del film è la canzone SERE  NERE di Tiziano Ferro, che rimase per lungo tempo in classifica. Esiste un seguito del romanzo intitolato HO VOGLIA DI TE, da cui è stato tratto il film omonimo ancora nelle sale( oltre a Scamarcio e alla Saunders ci sono anche Filippo Nigro e Laura Chiatti.)



 

 

 

ANNA KARENINA ( id., 1948)

 Anna karenina

 

Regia di Julien Duvivier, con Vivien Leigh (Anna Karenina),Kieron Moore (Conte Vronsky),Ralph Richardson (Alexej Karenin),Sally Ann  Howes (Kitty).

 

 

Anna Karenina, moglie del diplomatico  Alexej Karenin, vive in una prigione dorata : la sua vita si trascina monotona e frustrante tra piccoli screzi in famiglia,la cura dell’amato figlio Segeij, un marito gentile ma assente.Fino a quando incontra l’affascinante conte Vrosnky, militare in carriera dell’esercito, col quale è amore a prima vista.Inizialmente combattuta dai dubbi, Anna sceglie di fuggire col conte: ma dopo i primi tempi la nostalgia per il figlioletto e lo sfumare del sogno d’amore nella quotidianità di tutti i giorni aprono gli occhi ad Anna. Ma ormai è troppo tardi…

 

 

Tratto dal capolavoro ( 1877) di Lev Tolstoj,è un film incentrato quasi esclusivamente sulla bellissima interpretazione di Vivien Leigh, che da volto e soprattutto anima a una sofferta e sentita Anna, donna capace di grandi passioni che sacrifica tutto per amore e da questo amore viene distrutta.vivien212annaNon è da escludere ( ma questa è solo la mia impressione…)che l’attrice abbia messo molto di sé stessa, delle proprie insicurezze e sofferenze emotive in questo forte  personaggio,attorno alla cui storia ruotano comprimari bravi ma che scompaiono di fronte alla grandezza e bravura della protagonista;in particolare mi è sembrato molto incolore Kieron Moore,che pare fosse stato scelto anche in quanto all’epoca era un sex simbol…ma tant’è.Il film per il resto è molto accurato, ricostruendo perfettamente la società nobile russa dell’epoca;del romanzo di Tolstoj esistono altre due versioni: quella del 1935, diretta da Clarence Brown, con Greta Garbo ( Anna),Basil Rathborne ( Karenin),Frederich March ( Vronskj), e una del 1997 di Bernard Rose con Sophie Marceau ( Anna),Sean Bean ( Vronskj).

 

EMMA ( id,1996)

emma

 

Regia di Douglas Mc Grath, con Gwyneth Paltrow (Emma ),Greta Scacchi ( Mrs Weston),

Jeremy Northam (John Knightley),Ewan McGregor ( Frank Churchill),Toni Collette (Harriet Smith).

 

 

Emma Woodhouse è una giovane ereditiera che vive sola con l’anziano padre da quando la sua governante si è sposata con un gentiluomo dei dintorni;matrimonio felice di cui l’artefice principale è stata Emma, che ha fatto conoscere i due sposi.Da questo semplice fatto la giovane si convince di essere particolarmente portata per combinare unioni riuscite, e decide di dedicare la sua vita a questo generoso scopo:Il suo zelo la spinge a cercare di sistemare l’amica Harriett, di umili origini, con uomini di ceto sociale superiore,e a occuparsi anche della sistemazione di Frank Churchill,figliastro della sua governante.Tutto ciò sotto lo sguardo perplesso di Mr.Knightley, amico di famiglia, l’unico a dimostrare scarsa fiducia e un pizzico di giudizio critico sulle qualità della nostra eroina.

Le cui imprese daranno inizio a una serie di divertentissimi equivoci che però rischieranno, a lungo andare, di danneggiare Emma, facendole perdere il senso della realtà.

 

Tratto dal romanzo( 1816) di Jane Austen, il film ricalca abbastanza fedelmente lo spirito del romanzo.Diretto con uno stile grazioso anche se non memorabile e sicuramente inferiore alle riduzioni cinematorgrafiche di ORGOLIO E PREGIUDIZIO ( 1940) e RAGIONE E SENTIMENTO( dell’anno precedente), dà modo alla statica, scipita e sopravvalutata Gwineth Paltrow( scusatemi ma proprio non mi piace!)di offrire la sua migliore interpretazione.Incredibilemnte l’attrice riesce a dare volto a un’Emma credibile anche se  un po’ meno vivace rispetto al romanzo, ma comunque molto acuta e ironica, nonché molto “British”( nonostante l’attrice sia americana).emma%20and%20knightleyDegne di nota la fotografia che valorizza gli splendidi paesaggi inglesi, la sobria colonna sonora ( che in quell’anno valse il Premio Oscar a             )e l’eleganza dei costumi.Sugli altri interpreti posso dire che si ha l’impressione che abbiano svolto il compitino volenterosamente anche se con poco sforza,difatti non c’è un personaggio che rimanga in mente più di altri, oltre alla protagonista.Potrei segnalare in negativo un Ewan McGregor molto sottotono ( molto inadatto anche fisicamente!Vedere l’orribile capigliatura per credere…), ma comunque non vorrei dare un’impressione troppo negativa del film , perché è molto grazioso e potrebbe di sicuro soddisfare i fan della Austen e del suo romanzo.

 

 

ROMEO E GIULIETTA ( Romeo +  Juliet,1996)

romeo e giulieta

 

Regia di Baz Lhurman, con Leonardo di Caprio (Romeo),Claire Danes (Giulietta),John Leguizamo (Tebaldo),,Harold Perrineu (Mercuzio),Paul Sorvino (Mr.Capuleti).

 

Nella cittadina americana di Verona Beach ad una festa in maschera si incontrano e innamorano Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti, figli dei capi di clan mafiosi rivali.L’amore tra i due giovani, che tentano in ogni modo di superare le imposizioni familiari finirà, come si sa, in tragedia.

 

 

La più famosa tragedia di William Shakespeare viene trasportata ai giorni nostri, mantenendo però il testo completamente originale:un’operazione originale dal risultato meno sgradevole di quello che ci si poteva aspettare, anche se non del tutto riuscito.Merito dell’abilità del regista Baz Luhrman nel saper mescolare modernità e classicità :i dialoghi infatti sono quelli originali del testo di Shakespeare.Certo mettere un Tebaldo spacciatore e un Mercurio trans non è stata una scelta di gusto impeccabile, ma d’altronde essendo ambientata nel mondo della malavita qualche concessione ci può scappare;meno comprensibile, anche se più in linea con lo stile del regista, il ritmo da videoclip dato al film.In compenso i due giovani protagonisti Leonardo di Caprio( al suo primo ruolo importante) e Claire Danes non avrebbero davvero sfigurato in una versione classica!Ho molto apprezzato la scelta del regista di ritornare a rappresentare i due sfortunati innamorati così com’erano, cioè giovani( così come aveva fatto Franco Zeffirelli);i due attori oltretutto formano una coppia molto ben assortita e sono perfettamente credibili nei panni di innamorati.Lo consiglio vivamente ai fans della tragedia,per confrontare versione moderna e classica.

 romeo+juliet



VOGLIA DI TENEREZZA (Terms of endearment,1983)

 Voglia di tenerezza

 

Regia di James L.Brooks, con Shirley McLaine (Aurora),Debra Winger (Emma),Jack Nicholson (Garreth),Jeff Daniels(Flap).

 

Aurora è una vedova di mezza età che vive nel Sud degli Stati Uniti con la figlia Emma.Le due donne, diversissime tra loro per carattere ( brontolona, caustica ed energica la prima,dolce e solare la seconda) hanno un rapporto fatto di scontri molto frequenti, da cui comunque si capisce l’affetto sincero che provano l’una per l’altra.Quando Emma sposa Flap, un giovane docente universitario, e si trasferisce al seguito del marito in un altro Stato, Aurora rimasta sola accetta il corteggiamento scanzonato e sfacciato del nuovo vicino di casa, l’ex astronauta libertino ed eccessivo Garreth.La vita continua parallelamente per entrambe e nel corso degli anni riserva a entrambe ( soprattutto Emma)gioie e dolori;si ritroveranno quando Emma si ammala di cancro…

 

 

Tratto dal romanzo( 1975) di Larry McMuthry, il film è meritatamente uno dei grandi successi degli anni ’80, un mix di sorrisi e lacrime ( come venne definito all’epoca)che conquistò il grande pubblico grazie a una storia valida e non banale.Il rapporto contrastato tra Aurora e Emma viene reso magistralmtne dalle due interpreti, una grande Shirley McLaine, burbera, tenera e sensibile a seconda delle situazioni, e una giovane Debra Winger, star emergente ma intensa nell’interpretare i cambiamenti del suo personaggio nel corse della storia.terms-of-endearmentAggiugiamoci poi che il film rompe un tabù, raccontando in modo non scontato e con molta intelligenza la storia d’amore tra due persone non più giovani,regalandoci così due delle interpretazioni più memorabili e intense di Jack Nicholson e Shirley Mclaine nei panni di due “innamorati”giovani e spensierati nello spirito se non nell’età.

Nel 1989 il film vinse cinque premi Oscar:miglior film,attrice protagonista (Shirley Mclaine).attore non protagonista ( Jack Nicholson),regista e sceneggiatura ( James L.Brooks per entrambe).Nel 1996 è stato girato il seguito del film, CONFLITTI DEL CUORE,anch'esso tratto da un romanzo dello stesso autore:un seguito valido ma ignorato dal pubblico, sempre con Shirley McLaine nella parte di Aurora,Jack Nicholsono che compare in un cameo e Juliette Lewis nella parte di Melanie, ribelle figlia di Emma.

 

Tiziana

 

 

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MIGLIOR AUTORE DEL BLOG 2006

BEST 2006 BLOG'S AUTHOR

 

Da oggi è possibile tramite il sondaggio appositamente ideato votare l'autore che vi è piaciuto di più tra coloro che abbiamo ospitato nel nostro Treasure Box nel 2006.
L'autore che accumulerà il maggior numero di voti nell'arco di un mese verrà premiato dal blog e dalle sue lettrici come Miglior Autore del Blog del 2006.

Ecco le autrici in concorso: Eloisa James, T.A. Chase, Laura Baumbach, Willa Okati, J.L. Langley, Jules Jones, Loretta Chase (cliccando sui loro nomi potrete visualizzare tutti i contenuti del blog che sono stati loro dedicati)


Today you can vote your favorite author among those we hosted in our Treasure Box in the year 2006. The author who will count more votes in a month since now, will be awarded by the blog and its readers as Best Blog's Author 2006

Here are the competing authors:  Eloisa James, T.A. Chase, Laura Baumbach, Willa Okati, J.L. Langley, Jules Jones, Loretta Chase (clicking on their names you will see all their blog's contents)

 


Create polls and vote for free. dPolls.com

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Loretta Chase

Lord Perfect

(artist unknown)

 

proposta da Cristiana

Vote for our June Best Cover contest !
Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

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 Gentili Lettrici:

Un nuovo, cordiale saluto a tutte voi. E un rinnovato ringraziamento per l’interesse e l’entusiasmo che continuate a dimostrare ne “I Romanzi” Mondadori.

Chi vi scrive – dopo una fin troppo lunga assenza dovuta alle quintessenziali  forces majeures editoriali – è Sergio Altieri, Editor sia de “I Romanzi” che delle altre collane Mondadori da edicola.

Un ringraziamento particolare a coloro di voi che si sono espresse in modo decisamente lusinghiero nei riguardi del mio lavoro. Much obliged, Ladies!

Venendo quindi all’ordine del giorno, è  – you guessed it  - Passion !

Con due uscite simultanee al bimestre, iniziando da questo luglio 2007, ci auguriamo che questa proposta possa essere innovativa e temeraria a un tempo.

I “Passion” utilizzeranno la collaudata grafica editoriale de “I Romanzi”, ma avranno anche un design di copertina interamente nuovo, chiaramente distinguibile.

Come il nome suggerisce, a tutto il romance delle nostre collane attuali, nei “Passion” va ad aggiungersi una più consistente presenza di sensualità.

Le autrici sono di prima grandezza e le storie semplicemente ipnotiche.

Apriamo a luglio/agosto con due autentiche fuoriclasse: l’agognata Lisa Kleypas con “L’Alba dei Sogni” (Where Dreams Begin) e l’inarrivabile Adele Ashworth con “Il Duca del  Peccato” (Duke of Sin).

Per settembre/ottobre, citando al momento solo i titoli originali, alla magnifica Laura Lee Guhrke con “His Every Kiss”, si affianca l’ottima Sara Blayne con “Marrying the Marquis”.

L’avventura “Passion” del 2007 si completa a novembre/dicembre con “Beast” della straordinaria Judith Ivory e “Lord of Scoundrels” della impertinente Loretta Chase.

Altre frecce sono già incoccate per il 2008. Da Madeline Hunter a Jo Goodman, da Candice Proctor e Beverly Jenkins, senza con questo tralasciare i ritorni grandi di Lisa Kleypas e Judith Ivory.

Well, Ladies, there you have it. E’ l’inizio di una grande, appassionata avventura!

Ringraziandovi di nuovo, ci risentiremo a tempi molto brevi. Con la massima cordialità,

Sergio Altieri
Editor
Mondadori Category Books

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 William Maltese: TWO SIDES OF LOVE, ONE WRITER

 William Maltese: DUE LATI DELL'AMORE, UNO SCRITTORE

We are happy to host as our guest author William Maltese. In the American list of Who's Who for so many years, William Maltese is a prolific author who ranges over several genres, from mystery, to erotica, sci-fiction, and romance. Perhaps many usual romance readers don't know this name and then we're going to tell a bit of history…

In the late '70s, Harlequin in America and Harmony in Italy, used to publish love stories in which the main characters found love, left eachother, fell in love again, and at last married… but they did not make sex; apart for few kisses in the last pages, but even not too much passionate; all of this took place in anonymous american cities or in green english countryside. In order to get renewed, Harlequin chose to launch a new series, the SuperRomance, whose stories were a little more complex and original, usually settled in exotic countries, and whose characters made sex in the middle of the book… often even if not being married! Never heard!

The first book of this series was “Into the Light” by Judith Duncan, in which the main character Natalie lived in British Colombia, had a romance with Adam and they had a child outside the wedding. Everything all right, unusual setting and illegitimate love…

At this point, the matter was to find a worthy successor and the expectations were amply satisfied by Willa Lambert and hers “Love's Emerald Flame” (published in Italy by Harmony, Serie Oro, with the title “Nel Regno del Giaguaro”), in which the main character Diana passionately loved Sloane in the Peruvian forest, in the shadow of Machu Picchu ruins. Willa Lambert wrote other two books for SuperRomance series, “From this Beloved Hour” (“L'inganno del destino”) and “Love's Golden Spell” (“Pure come il diamante”), both published in Italy by Harmony, Serie Oro, in the early 80s.

The particularitity of these novels was a strong sensuality and the unusual and adventurous setting, Miss Lambert seemed really very original and bold… maybe because she was not a Miss? Yes, because behind the pen name of Willa Lambert, there was William Maltese, and before writing for Harlequin, he had already a past as erotic fiction, etero and homosexuals, author. In Italy of course this was never said, and I emphasize "of course" because Harmony in Italy had a reputation as very prim and proper publisher, in contrast perhaps with Bluemoon: it would have been unthinkable to admit that one of their published authors was in truth a man with a past curriculum of erotic literature.

And even bolder was that, like reveals the author himself, his novels were born as homosexual love stories, adapted in an etero version in order to satisfy the publishers' demands. But today William Maltese has decided to re-publish the books as originally thought: so enjoy reading some scenes both in etero and homosexual version of “Love's Emerald Flame” , now “Beyond Machu”, released in 2006, and “From This Beloved Hour” , now “Goldsands”, coming soon for MLR press.

Siamo felici di ospitare tra di noi William Maltese. Da anni ormai nella lista di Who is Who americana, William Maltese è un prolifico autore che spazia in diversi generi, dal mystery, all'erotica, alla fantascienza, al romance. Molte delle abituali lettrici di romanzi rosa forse però non conoscono questo nome ed allora facciamo un po' di storia...

Alla fine degli Anni Settanta Harlequin in America, Harmony in Italia, pubblicava principalmente storie d'amore dove i protagonisti si amavano, si lasciavano, si ritrovavano, si sposavano... e non facevano sesso; tutta al più, all'ultima pagina, si scambiavano un bacio, ma non troppo appassionato; il tutto ambientato in una anonima città americana o nella verde campagna inglese. Cercando di rinnovarsi, Harlequin decise di lanciare una nuova collana, i SuperRomance, le cui storie erano un po' più complesse e originali, ambientati di solito in paesi esotici, e dove, udite udite, i protagonisti facevano sesso anche a metà del libro... e spesso senza essere sposati! Inaudito!

Il primo libro di questa collana fu "Into the Light" di Judith Duncan, dove la protagonista Natalie, che abitava nella Colombia Britannica, aveva un figlio con Adam fuori dal matrimonio. Obiettivo raggiunto, ambientazione insolita e amore illegittimo...

Ora bisognava trovare un degno successore e le aspettative furono ampiamente soddisfatte da Willa Lambert e dal suo "Love's Emerald Flame" (tradotto in italiano per la Collana Harmony Oro come "Nel Regno del Giaguaro"), dove la protagonista Diana amava appassionatamente Sloane nelle foresta peruviana e all'ombra delle rovine di Machu Picchu. Willa Lambert scrisse altri due libri per i SuperRomance, "From this Beloved Hour" ("L'inganno del destino") e "Love's Golden Spell" ("Puro come il diamante"), entrambi tradotti in Italia nella collana Harmony Oro agli inizi degli anni Ottanta.

La particolarità di questi romanzi era una forte sensualità e delle ambientazioni insolite e avventurose, insomma sembrava proprio che la Signorina Lambert fosse molto originale ed audace... forse perchè non era una signorina? Eh si, perchè dietro lo pseudonimo di Willa Lambert, si nascondeva William Maltese, che quando arrivò a scrivere per la Harlequin, aveva alle spalle decine di pubblicazioni erotiche, etero e omosessuali. Ma questo naturalmente in Italia non venne mai detto, e sottolineo naturalmente perchè Harmony in Italia aveva la fama di editore molto morigerato, in contrapposizione forse alla Bluemoon: sarebbe stato impensabile ammettere che una delle autrici pubblicate era in realtà un uomo con alle spalle un curriculum di letteratura erotica.

E cosa ancora più audace è che, come ci rivela lo stesso autori, i suoi romanzi erano nati come storie d'amore omosessuale, adattate nella versione etero per venire incontro alle richieste dell'editore. Ma oggi William Maltese ha deciso di pubblicare i libri come originariamente li aveva pensati: quindi divertitevi a leggere la stessa scena in versione etero e poi in versione omosessuale di "Love's Emerald Flame" adesso "Beyond Machu", uscito nel 2006, e di "From This Beloved Hour" ora "Goldsands" di prossima uscita.

BIOGRAPHY

I was born in the U.S. Pacific Northwest, land of work boots, flannel shirts, lumberjacks, and rain ... rain ... rain. Frequent deluges probably the origin of my present fondness for most places warm, tropical, and continually bathed in lots and lots of sunshine.

When I was young, we moved to California, land of surfboards, surfer shorts, surf sand, all beneath blue-blue surfer-boy-eyes skies. Providing me endless insights for telling tales of those blond-haired young studs who ride the waves and each other.

I attended university and majored in Marketing/Advertising. Between my junior and senior years, I accompanied a friend to South America to follow a treasure map from an obscure Spanish botanical text. All we got for our efforts were bad cases of crotch rot and enough he-man adventure for me to write up for a popular men's magazine.

After I got my university degree, I enlisted in the U.S. Army. The draft existed, and non-compliance with one's military obligation could provide a blotch on one's record. Granted, the Vietnam War moving into full-swing, more than a few of my peers sought and got deferments, or fled (momentarily or forever) to Canada; actions that, even today (ask some to-remain-unnamed political candidates) can come back to bite them on their collective ass. I rose to the rank of Sergeant (actually to an E-5 equivalent). Despite consistent rumors that my attained experience in "black-ops" accounts for the realistic portrayal of more than one of my military-background fictional characters (Jeff Billing in THAI DIED specifically comes to mind), let me emphasize that my entire term of service was pretty much spent behind an innocuous desk in Personnel. My three years in the Army did, though, expose me to a genuinely extensive gay subculture that included officers and enlisted men ... and their frequent get-togethers for sexual fun and games. Gay debauchery in the Army thrived covertly (sometimes overtly) between periodic sweeps - easily avoided by those in the know - for the purpose of "weeding out the perverts and the queers."

After my Honorable Discharge, I was faced with either advantaging my degree in Marketing/Advertising, by interviewing for jobs on the East and West coasts, or taking off a couple of months to try my hand at a return to writing. At which time, I read my first book of gay erotica and immediately thought I could do as well. I proceeded to write a chapter a day of my gay sci-fi opus, FIVE ROADS TO TLEN, reading the results each night to friends turned sycophants by free booze. I sent the final results to Greenleaf Classics that published not only it but my second TLEN book, then my ADONIS detective series, and then so many others I've almost lost count. At which point, there was no looking back.

Finding myself rampantly prolific, my gay literary output suddenly too much for Greenleaf to keep up with, I was asked to come up with some hetero erotica for that publisher's straight-sex imprint.

A passing "aside", here, on my sexuality, since it's often (surprisingly enough to me), a subject of intense interest and speculation, more than one critic having surmised my sexually ambiguous Stud Draqual character, from my mystery series of the same name, is based upon me. Maybe Stud is a self-characterization, but only to a point, because let me assure you that I was far less baggaged with angst as regards my decision to have sex with a man. However, that I knew at an early age how attracted I was to the same sex (and/or vice versa, even more so), steered me into my concentrated and successful efforts to make sure my first sexual experience was with a woman. Well aware of the political correctness and necessity of a wife, even of children, for anyone out to succeed in the world of corporate America, I wanted to be sure that I didn't eliminate those options. No way I intended to enjoy sex with a man so much that I was, in the end, as were some gays, suddenly forever turned off by the prospect of going to bed with a member of the opposite sex.

So, when Greenleaf requested I do some hetero erotica, I was not only ready, willing, and able to provide it, but I quickly became as prolific with my hetero as with my gay stuff, soon publishing through just about every available outlet.

American Art Enterprises, one such publisher at the time, also had a mainstream imprint, Carousel, and was soon publishing my for-middle-America non-erotic adventure/espionage, my sci-fi fantasy, and my romance paperbacks, all appearing on the family-accessed racks of your local bookstores.

My three romances for Carousel ended up providing me entrée to behemoth romance publisher Harlequin where George Glay, Senior Editor, was out to update the sexuality of his company's output via launching a new SuperRomance imprint. Up until then, Harlequin was mainly a reprint house for England's Mills and Boon. Books from M&B somewhat simplistic girl meets boy, girl loses boy, girl gets boy, girl and boy don't have sex until after marriage. George viewed my background in romances and erotica as likely advantageous (he was right), in providing his company with that all-important and internationally best-selling (translated into over ten foreign languages), Book 2 of the SuperRomance imprint. No coincidence, I might add, that my LOVE'S EMERALD FLAME hearkened back to a familiar-to-me South-American jungle theme.

My success in erotica and mainstream publishing, combined with my not-all-that-bad looks, college education, and an upbringing that had acquainted me early with all the nuances of successful mingling in polite society, saw me the darling of certain liberal, literary, artsy-fartsy circles. And it was during that time that I was "taken under the wing" of an older woman with whom I soon embarked upon a whirlwind itinerary of 1st-class foreign travel by cruise ship ... round-the-world, circle-the-Pacific, through-the-Panama-Canal. Supplemented by winters in the Caribbean, extensive visits to Mexico and South America, Europe and Asia. So many foreign cities under my belt before I ever set foot in New York City that my first impression of The Big Apple was an unimpressed, "Is this all there is?" It having taken me a long and leisurely courtship to arrive at my present state of true love for that city and adoration for its nowhere-else-in-the-world uniqueness.

The death of my lady "friend" saw me in a sudden burst of spend-my-own-money trekking through Thailand, Egypt, Zanzibar, South Africa, then returning to Greece and Italy.
In England, I learned of gay Prowler Books out to make its transition from magazine publisher to book publisher, in order to improve its hand in a proposed merger with Millivres. I advantaged its need by writing for it: CALIFORNIA CREAMIN', SUMMER SWEAT, and WHEN SUMMER COMES. I was then given my own imprint by it to publish the first of my Stud Draqual Mystery Series, A SLIP TO DIE FOR. ASTDF German-language rights soon purchased by Rotbuch Krimi and published by it as DESSOUS ZUM
STERBEN. By way of German-language follow-up, I did LUST AUF SCHWEISS for Bruno Gmünder, and my now-infamous short-story "Doppelmörder" for inclusion in the QUEER CRIME anthology for Querverlag.

Again back in the States, I began working on my SS MANN HUNT (Writers Club Press, 2002), and the second book of my Stud Draqual Mystery Series, THAI DIED (Green Candy Press, 2003). Then, I wrote A CONSPIRACY OF RAVENS: A ONE-HAND READ® (iUniverse 2003), and made a really enjoyable trip to Czechoslovakia to write my gay sexual romp SLOVAKIAN BOY (Green Candy Press, 2004). I did circuSex: A ONE-HAND READ® (iUniverse, 2004), followed by my sci-fi epic BOND-SHATTERING (nightwares, LLC, 2005).

I’ve since teamed up with publisher Wildside Press / Borgo Press who has not only gone to contract to release some twelve of my out-of-print books but who has, also, contracted to publish ten of my original mainstream novels, including my SS & M: BEING EXCERTS FROM THE NAZI DEATH-HEAD FILES (2007); my bisexual male/adventure THE GOMORRHA CONJURATIONS (2007); HEART ON FIRE: A ROMANCE (2007); ANAL COUSINS: CASE STUDIES IN VARIANT SEXUAL PRACTICES (2007); GERUN, THE HERETIC (2007); and, my gay-themed mystery THE FAG IS NOT FOR BURNING (2007).

Most recently, it has been my pleasure to become associated with the newly-launched publishing house MRL PRESS which is presently focusing entirely on m/m romantic fiction. MRL has just re-issued my DIARY OF A HUSTLER (AS TOLD BY JOEY, 2007), and will follow up with five additional books, including GOLDSANDS (2007) which is the m/m rewrite of my internationally best-selling Harlequin Superromance #23 FROM THIS BELOVED MOMENT and my TUSKS (2007) which is the m/m rewrite of my internationally best-selling Harlequin Superromance #59 LOVE’S GOLDEN SPELL.

This being a good time to mention my BEYOND MACHU (Haworth Press, 2006) which is the m/m rewrite of my international best-selling m/f Harlelquin Superromance #2 LOVE’S EMERALD FLAME.

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Sono nato nella costa pacifica degli Stati Uniti, terra di stivali da lavoro, camice di flanella, scarpe pesanti, e pioggia… pioggia… pioggia. I diluvi frequenti probabilmente sono l’origine del mio attuale amore per i posti caldi, tropicali, e perennemente bagnati dal sole splendente.

Quando ero piccolo, ci siamo trasferiti in California, terra di surf, pantaloncini da surf, sabbia da surf, tutto sotto un cielo blu come gli occhi blu dei surfisti. Fornendomi esperienze di prima mano per raccontare le storie di quei giovani dai capelli biondi che cavalcano le onde e si cavalcano a vicenda.

Ho frequentato l’università e mi sono laureato in Marketing/Pubblicità. Tra i primi anni d’università e gli ultimi, ho accompagnato un amico in Sud America per seguire una mappa del tesoro tratta da un oscuro testo di botanica spagnolo. Tutto quello che abbiamo ottenuto dai nostri sforzi, sono stati dei brutti casi di diarrea e abbastanze avventure da machi per me da raccontare per una famosa rivista per uomini.

Dopo aver ottenuto la mia laurea, mi sono arruolato nell’esercito degli Stati Uniti d’America. La prova esiste, e non per soddisfare un obbligo militare e fornire una firma sulla scheda di qualcuno. Garantito, la Guerra in Vietnam era al suo culmine, molti dei miei coetanei cercarono e ottennero un rinvio della chiamata di leva, o fuggirono (momentaneamente o per sempre) in Canada; azioni queste che, anche oggi (chiedete ad alcuni candidati politici rimasti senza nome) possono ritorcersi contro e morderli nel sedere. Ho raggiunto il grado di Sergente (in realtà l’equivalente di un livello E-5). A dispetto di persistenti voci che l’esperienza guadagnata nelle black-ops sia servita per fare dei ritratti realistici per molti dei miei personaggi con un passato militare (mi viene in mente in particolare Jeff Billing in THAI DIED), lasciatemi sottolineare che la mia intera permanenza in servizio è stata per la maggior parte spesa dietro un’innocua scrivania dell’Ufficio Personale. I tre anni passati nell’Esercito, tuttavia, mi hanno esposto ad un’estesa subcultura genuinamente omosessuale che include ufficiali e coscritti... e il loro frequente ritrovarsi insieme per divertimento e giochi sessuali. La dissolutezza omosessuale nell’esercito prosperava di nascosto (e qualche volta in modo evidente) tra periodiche epurazioni – facilmente evitate da quelli che ne sapevano di più – allo scopo di “estirpare i pervertiti e le checche".

Dopo il mio Onorevole Congedo, mi sono trovato di fronte alla possibilità di mettere a frutto la mia laurea in Marketing/Pubblicità, facendo interviste per lavoro dalla costa orientale a quella occidentale, o prendendo un paio di mesi di stacco per mettere alla prova la mia mano e tornare a scrivere. In quel periodo, ho letto il mio primo libro erotico omosessuale e ho immediatamente pensato che potevo scriverne uno anche io. Ho iniziato a scrivere un capitolo al giorno della mia opera di fantascienza omosessuale, FIVE ROADS TO TLEN, leggendo ogni notte i miei sforzi agli amici che si sono trasformati in leccapiedi al costo di sbornie gratuite. Ho mandato il risultato finale alla Greenleaf Classics che non solo lo ha pubblicato ma ha anche pubblicato il mio secondo libro della serie TLEN, poi la mia serie poliziesca ADONIS, ed infine cosi tanti altri libri che ho quasi perso il conto. A quel punto, non c’era modo di tornare indietro.

Ritrovandomi prolifico in modo dilagante, la mia letteratura omosessuale improvvisamente troppa perché la Greenleaf riuscisse a starci dietro, mi fu chiesto d’uscirmene con un po’ di letteratura erotica eterosessuale per la collana non gay di quel editore.

Un excursus, qui, sulla mia sessualità, poiché spesso è (abbastanza sorprendentemente per me), oggetto d’interesse e speculazioni intense, con più di un critico che ha ipotizzato che il mio personaggio sessualmente ambiguo Stud Draqual, dalla mia serie di mistero dallo stesso nome, si basasse su di me. Forse Stud è un autoritratto, ma solo in un aspetto, perché lasciate che vi rassicuri che io ero molto meno appesantito dall’angoscia riguardo alla mia decisione di fare sesso con un uomo. Tuttavia, dato che sapevo fin da giovane quanto attratto ero dal mio stesso sesso (e/o vice versa, anche di più), mi sforzai caparbiamente e con successo di assicurarmi che la mia prima esperienza sessuale fosse con una donna. Ben consapevole della correttezza e necessità politica di una moglie, e magari anche di figli, per qualsiasi persona che cercava di avere successo nella società americana, volevo essere sicuro di non privarmi di tale possibilità. In nessun modo intendevo apprezzare così tanto il sesso con un uomo da diventare, alla fine, come alcuni omosessuali, improvvisamente sconvolti dalla prospettiva di andare a letto con un membro dell’altro sesso.

Così, quando la Greenleaf mi ha chiesto di scrivere un po’ di letteratura erotica etero, non solo ero pronto, disposto e capace di farlo, ma presto diventai così prolifico con i miei lavori etero così come con i mie lavori gay, presto disponibili in ogni punto vendita.

American Art Enterprises, uno dei miei editori dell’epoca, aveva anche un collana principale, Carousel, e divenne presto l’editore per i miei libri d’avventura/spionaggio non erotici e destinati al pubblico medio americano, per la mia fantascienza fantasy, e per i miei tascabili romance, tutti presenti negli scaffali accessibili alle famiglie dei negozi sotto casa.

I miei tre romance per Carousel finirono per fornirmi il biglietto da visita per l’enorme editore di romance Harlequin dove George Glay, editore anziano, cercava di modernizzare la sessualità dei prodotti della sua compagnia lanciando una nuova collana di SuperRomance. Fino a quel momento, Harlequin era principalmente una casa editrice che ristampava le edizioni dell’inglese Mills and Boon. Nei libri della M&B una ragazza in qualche modo incontrava un ragazzo, la ragazza conquistava il ragazzo, la ragazza e il ragazzo non facevano sesso fin dopo il matrimonio. George pensava che la mia esperienza nel romance e nella letteratura erotica fosse un vantaggio (e aveva ragione), nel fornire alla sua compagnia dei libri campioni d’incasso importanti e internazionali (tradotti in oltre dieci lingue straniere), numero due nella collana SuperRomance. Nessuna coincidenza, potrei aggiungere, che il mio LOVE'S EMERALD FLAME fosse ambientato nella giungla del Sud America a me così familiare.

Il mio successo nella letteratura erotica e di genere, insieme con il mio aspetto non poi così malvagio, la mia educazione universitaria, e una famiglia che mi ha presto reso familiare con tutte le sfumature di un’integrazione di successo nella buona società, mi ha visto diventare il pupillo d’alcuni circoli liberali, letterari e pseudo artistici. E fu in quel periodo che fui “preso sotto l’ala protettrice” di una donna più anziana con cui presto m’imbarcai in un itinerario vorticoso di prima classe fatto di viaggi all’estero sulle navi da crociera... attraverso il mondo, circumnavigando il Pacifico, attraverso il Canale di Panama. Integrato con inverni nei Carabi, prolungate visite in Messico e Sud America, Europa e Asia. Così tante città straniere sotto i miei piedi prima di mettere piede per la prima volta a New York City che la mia prima impressione della Grande Mela fu un poco impressionato, “E’ tutta qui?”. C’è voluto un corteggiamento lungo e piacevole per arrivare al mio stato attuale di vero amore per questa città e d’adorazione per la sua unicità che non c’è in nessun altra parte del mondo.

La morte della mia cara “amica” mi vide in un’improvvisa necessità di spendere i miei soldi facendo trekking attraverso Tailandia, Egitto, Zanzibar, Sud Africa, per tornare in Grecia e Italia.

In Inghilterra, venni a conoscenza dei libri omosessuali della Prowler Books che si apprestava a passare da editore di riviste ad editore di libri, per aumentare il suo peso in una fusione proposta con la Millivres. Approfittai di questo bisogno scrivendo per loro: CALIFORNIA CREAMIN', SUMMER SWEAT, e WHEN SUMMER COMES. Mi fu data poi da loro la mia prima collana con la pubblicazione del primo libro della mia serie mystery di Stud Draqual, A SLIP TO DIE FOR. I diritti per la traduzione in tedesco di ASTDF presto furono acquistati da Rotbuch Krimi e pubblicato da loro come DESSOUS ZUM STERBEN. A causa del successo del libro in tedesco, scrissi LUST AUF SCHWEISS per Bruno Gmünder, e la mia ora famigerata novella "Doppelmörder" che fu inclusa nell’antologia QUEER CRIME per Querverlag.

Di nuovo negli Stati Uniti, cominciai a lavorare sul mio SS MANN HUNT (Writers Club Press, 2002), e sul secondo libro della mia serie mystery Stud Draqual, THAI DIED (Green Candy Press, 2003). Poi, ho scritto A CONSPIRACY OF RAVENS: A ONE-HAND READ® (iUniverse 2003), e fatto un viaggio davvero piacevole in Cecoslovacchia per scrivere il mio romanzo erotico omosessuale SLOVAKIAN BOY (Green Candy Press, 2004). Scrissi poi circuSex: A ONE-HAND READ® (iUniverse, 2004), seguito dal mio libro di fantascienza epica BOND-SHATTERING (nightwares, LLC, 2005).

Da quel momento mi sono appoggiato all’editore Wildside Press / Borgo Press che non solo mi ha fatto un contratto per ripubblicare dodici dei miei libri fuori stampa ma con cui ho anche sottoscritto un contratto per pubblicare dieci dei miei romanzi di genere, incluso il mio SS & M: BEING EXCERTS FROM THE NAZI DEATH-HEAD FILES (2007); i mie libri di avventura bisessuale THE GOMORRHA CONJURATIONS (2007); HEART ON FIRE: A ROMANCE (2007); ANAL COUSINS: CASE STUDIES IN VARIANT SEXUAL PRACTICES (2007); GERUN, THE HERETIC (2007); e il mio libro mystery a tema omosessuale THE FAG IS NOT FOR BURNING (2007).

Di recente, è stato con piacere che mi sono associato ad una nuova casa editrice appena fondata, la MRL PRESS, che in questo momento si sta dedicando interamente alla mia letteratura romantica omosessuale. MRL ha appena ristampato il mio DIARY OF A HUSTLER (AS TOLD BY JOEY, 2007), cui seguiranno altri cinque libri, inclusi GOLDSANDS (2007) che è la riscrittura omosessuale del mio campione di vendite internazionale Harlequin Superromance #23 FROM THIS BELOVED HOUR e il mio TUSKS (2007) che è la riscrittura omosessuale dell’altro mio campione di vendite internazionale Harlequin Superromance #59 LOVE’S GOLDEN SPELL.

Questo è il momento giusto per citare il mio BEYOND MACHU (Haworth Press, 2006) che è la riscrittura omosessuale di un altro mio campione di vendite internazionale Harlelquin Superromance #2 LOVE’S EMERALD FLAME.

WHY DID I DECIDE TO RE-WRITE THREE VERY SUCCESSFUL HETEROSEXUAL HARLEQUIN SUPERROMANCES AS HOMOSEXUAL ROMANCES?

Well, it really didn’t require all that much of a leap of creative genius, on my part, when you take into account that my LOVE’S EMERALD FLAME (first of my Harlequin releases) was originally written as a male-male romance/adventure. Having cut my teeth on m/m fiction, my first m/m book ever published having been my ADONIS (Greenleaf Classics, 1969), I had over 80 of my m/m books published by the time I approached Harlequin in early 1979 as regards the possibility of that publisher starting up a m/m romance imprint to supplement its popular m/f romantic fiction.

Of course, I was a little ahead of my time with my suggestion, Harlequin finding the idea of m/m romantic fiction “interesting”, but… Well, let’s just say that it remains, even to this day, a rather, staid, conservative, and traditional publisher who found the idea of an m/m imprint a tad too risky.

That said, George Glay was Senior Editor at the time and thought that there was no reason that my THAI DIED couldn’t be successfully rewritten as a heterosexual romance LOVE’S EMERALD FLAME if I was willing to go that route. In fact, Harlequin was even as we spoke, in the process of launching it’s sexier, and longer, and more plot-lead Superromances, and George was desperately looking for the all-important book two in that series. The rest is history.

So, the m/m BEYOND MACHU having made the transition to the m/f LOVE’S EMERALD FLAME and back to the m/m BEYOND MACHU again, it just followed, as night follows day, that my other two heterosexual Superromances for Harlequin could as easily make the same transition to m/m. I proceeded to do just that and luckily, what with Haworth Press and MLR Press, I’ve found publishers as interested in those books’ conversions as I am.

PERCHE’ HO DECISO DI RISCRIVERE TRE HARLEQUIN SUPERROMANCES ETERO DI SUCCESSO COME ROMANCE OMOSESSUALI?

Beh, non ci è voluto molto sforzo creativo, da parte mia, se tieni presente che il mio LOVE’S EMERALD FLAME (la mia prima uscita con la Harlequin) era originariamente un romance d’avventura omosessuale. Essendomi fatto i denti con la letteratura omosessuale, il mio primo libro omosessuale pubblicato è stato il mio ADONIS (Greenleaf Classics, 1969), avevo oltre 80 libri omosessuali pubblicati quando fui avvicinato dalla Harlequin all’inizio del 1979 a riguardo della possibilità che quell’editore lanciasse una collana che si andasse ad aggiungere alla sua popolare letteratura romantica etero.

Naturalmente, io ero un po’ troppo avanti con i tempi per il mio suggerimento, la Harlequin trovava l’idea di una letteratura romantica omosessuale “interessante”, ma… Beh, lasciatemi solo dire che rimane, ancora ai nostri giorni, un editore piuttosto serio, conservativo e tradizionale che trovava l’idea di una collana omosessuale un po’ troppo rischiosa.

Detto questo, George Glay era un editore anziano in quel periodo e pensava che non ci fosse motivo per cui il mio THAI DIED non potesse essere riscritto con successo come un romanzo etero, LOVE’S EMERALD FLAME, se io ero disposto a seguire quella strada. Infatti, la Harlequin proprio mentre ne parlavamo, stava per lanciare la sua collana Superromance, più sexy, e più lunga, e con trame più complesse, e George stava cercando disperatamente il così importante libro due in quella collana. Il resto è storia.

Così, l’omosessuale BEYOND MACHU fece il suo passaggio nell’etero LOVE’S EMERALD FLAME e di nuovo indietro nell’omosessuale BEYOND MACHU, e di seguito, come la notte segue il giorno, i miei altri due Superromances etero per la Harlequin possono fare facilmente lo stesso passaggio in omosessuali. Sono andato avanti a fare proprio questo e fortunatamente, con la Haworth Press e la MLR Press, ho trovato editori interessati alla conversione di questi libri come lo sono io.

Blurb of LOVE’S EMERALD FLAME (NEL REGNO DEL GIAGUARO): To Diana Green, reporter, it seems just a work of all rest: to go to Machu Pichu, Perù, to take some beautiful picture of the ruins, to throw down an article and to return to Seattle. But she has not taken in accounts the fascination of the lost civilization Inca and… with that one of Sloane Hendricks, that rush into her life with the same impudent arrogance of a conquistador.

And really he conquest her to such point to drag her in a mad adventure in the equatorial forest, to the search of the wreckage of an airplane crashed twenty years before.

In a following of breathtaking turn of events, where no more is understood who are the hunters and who the preys, Diana discovers the love and invents the courage. In the reign of the jaguar, that it seems to spy on alert every hers movement, it is not possible to yield, not even to the impulses of the heart…

Per Diana Green, cronista, sembra proprio un lavoretto di tutto riposo: recarsi a Machu Pichu, in Perù, scattare qualche bella foto delle rovine, buttare giù un articolo e tornare a Seattle. Ma non ha fatto i conti col fascino della perduta civiltà Inca e... con quello di Sloane Hendricks, che irrompre nella sua vita con la stessa impudente arroganza di un conquistador.

E in effetti la conquista al punto tale da trascinarla in una folle avventura nella foresta equatoriale, alla ricerca del relitto di un aereo precipitato vent'anni prima.

In un susseguirsi di colpi di scena mozzafiato, dove non si capisce nemmeno più chi siano i cacciatori e chi le prede, Diana scopre l'amore e s'inventa il coraggio. Nel regno del giaguaro, che sembra spiare vigile ogni sua mossa, non è possibile cedere, nemmeno agli impulsi del cuore...

Excerpt from LOVE’S EMERALD FLAME
William Maltese (writing as Willa Lambert)
ISBN: 0373700024
Wordspinner Press
© 1987

“THERE!” SLOANE SAID, pointing.

Diana saw the zigazag scar etched on the side of the mountain now coming into view.

“You see before you the Hiram Bingham Road,” Sloane said. “Named after Professor Hiram Bingham of Yale, who discovered the ruins of Machu Picchu on July 24, 1911. It’s five miles of road built right into the side of a mountain that rises more than a thousand feet from the canyon bottom, where we are now, to the ruins of Machu Picchu up on top. There’s a total of thirteen turns.”

“Thirteen is an unlucky number,” Carol announced, stirring to join everyone in looking out the window.

“Thanks for reviving long enough to deliver that long-awaited bit of good cheer,” Diana responded.

“Just please don’t tell me I’m going to have to walk up that mountain,” Carol said. If so, she was obviously prepared to stay on the train.

“Luckily, you are no longer required to walk or take donkeys. They’ve shipped in camionetas just to serve the tourist trade.”

“Camionetas?” Diana asked.

“Small buses. Usually VWs”

“Thank God for the Germans!” Carol said.

“Actually, I rather think a donkey would be more fun,” was Diana’s comment, eliciting a smile from Sloane and an are-you-crazy groan from Carol.

“Well, ladies, if I don’t get the chance to say any farewells during the hassle of detraining, let me thank you now for your company.” Sloane was addressing both of them, but he was looking at Diana the whole time. Diana was feeling a definite pang of regret, realizing she had actually been hopeful he would be going on to the ruins with them. She was admittedly going to miss the edge of excitement this man had an uncanny way of adding to her life.

“But surely we’ll see you on top?” Carol said, not concealing her own hope that she would be saved any further, possibly incriminating contact with the man.

“I’m afraid I’m staying here at the bottom,” answered Sloane. “I’m meeting friends for a few days of hiking.”

“Be sure to watch out for man-eating jaguars, won’t you, Mr. Black?” Carol said, beginning to pick up her things. “I hear they’re running rampant.”

The train was almost at a complete stop.

“Thank you for your concern,” Sloane said. He was speaking to Carol’s back, though, because she had already taken advantage of a break in traffic to slip into the aisle, where Al was busy trying to herd his group forward.

“I’m afraid our little charade didn’t much fool your friend,” Sloane whispered to Diana, flashing a wide smile, when Carol was out of earshot. “She’s very perceptive.”

“More likely, I’m just a poor liar.”

“That could be it, too,” he good-naturedly admitted.

The car was almost empty.

“Well, Miss Green, it has certainly been nice meeting you — again.”

“And it’s been . . . well, interesting meeting you — again.”

“If that’s the best I can hope for,” Sloane responded with a chuckle, “I suppose it will just have to do.” They both got up, Sloane letting Diana slip by into the aisle ahead of him. “You know, I’m rather tempted to ask for another farewell kiss,” he added in a low voice.

Diana could feel him close behind her, his warm breath tickling the sensitive nape of her neck. She turned her head slightly. “If you got a kiss for every time we’ve said goodbye lately,” she said teasingly, her eyes sparkling, “I would have ended up kissing you more than I have some of my steady boyfriends.”

The train was now completely empty. As they neared the exit, Diana felt Sloane’s hand on her shoulder, lean fingers pressing gently but firmly into smooth flesh, and realized that she had actually hoped for it.

“Diana,” he said. Just “Diana,” but it sent strange little shivers up and down her spine. She turned toward him, once again impressed by the pure physical size of him as she looked up into his eyes, seeing those penetrating black pupils surrounded by their brown starbursts.

“I really did believe you when you said you wouldn’t call Sipas from the hotel in Cuzco,” he told her. “Really, I did. But I had to make sure, cover all the bases, don’t you see? It’s so very important for me to locate that downed aircraft.”

“I thought it was obvious I’d already forgiven you,” she replied softly, a tremor running through her at the urgent way his eyes were searching her face.

He cupped her chin in his right hand. His palm against her skin was sensuously rough with calluses.

“In a way, I wish I had met you at another time, in another place . . . certainly under far better circumstances,” he went on.

“On the other hand, it’s probably far better this way,” sighed Diana, wondering if she really believed what she was saying.

“Perhaps,” he admitted, sounding no more convinced than she.

His eyes locked hers in a questioning gaze, although Diana didn’t think she knew the question — or the answer. She did know there was a mysterious magnetism that seemed to draw her deeper into those hypnotic brown-specked black eyes, causing her to lean toward them. Sloane took full advantage by reaching out to intercept her and enfold her in his arms. His lashes, lush and long, brushed her soft cheek as his lips touched and then settled firmly on her mouth.

She felt the resulting undercurrent of danger that accompanied their kissing, just as she had felt it at the hotel in Cuzco the first time he had kissed her: an almost erotic combination of longing and fear, pleasure and panic. However, having successfully faed the danger once before, she felt more confident in dealing with it now, which might have been why she made no immediate move to pull away.

He was, after all, leaving her life forever once he left the train, removing with him the threat, whatever it was, he mysteriously offered. And Diana felt an obligation to herself to store up as many memories as possible of the disturbingly unique responses this man, like none other before him, seemed capable of triggering inside her. At the same time, she wasn’t sure whether she was relieved or disappointed by her intuition that there might never ben another man in her life who could affect her the way Sloane did.

As his lips lingered longer and longer, always moving in a gentle caress that added more and more to the exquisite fire flushing her cheeks and warming her body, Diana’s common sense finally warned her that she had let herself back onto very dangerous ground.

Oh, she knew there was no way too much could happen here; after all, they were in a train car, and soon Al or Carol would be coming back to check on what was keeping her so long. When her tour group left Machu Picchu later that afternoon, however, Diana would be staying on for a whole week without Al or Carol there to check up on her welfare. And although Sloane had said he was shortly going off into the jungle, there was always the chance, perhaps through that same quirk of fate that had thrown them together before, that he might show up at the hotel on the mountain. Possibly misconstruing the reasons behind Diana’s harmless compliance now, he could mistake her behavior for an invitation to attempt future liberties — if and when he ever felt them available. Which was certainly not to be encouraged at any cost!

Telling herself she had been wrong ever to assume she was capable of handling the type of challenge this man represented, she laced both of her hands on his chest —how hard and exquisitely muscled his body felt against her flattened palms — and firmly pushed him away.

“We really must stop meeting like this,” Diana said nervously, attempting levity in the hopes of discharging some of the skin-prickling electricity that had built up between them.

“Yes, it’s frustrating as all hell, isn’t it?” His comment only confirmed that he had mistaken her response for something far more serious than Diana told herself it really was — or was ever intended to be.

“I really must be going,” Diana said, wondering if she could possibly be blushing again. She hadn’t blushed in years — until recently. “Carol will undoubtedly think you’ve kidnapped me, or something equally horrendous!”

She turned, moving quickly along the aisle to the door and stepping out into the bright Peruvian sunshine. Sloane followed directly behind her.

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“Guardate li!” disse Sloane, indicando.

Diana vide la cicatrice irregolare sul lato della montagna ora in vista. “State vedendo di fronte a voi la Hiram Bingham Road”, disse Sloane. “Chiamata così in onore del professore di Yale Hiram Bingham, che ha scoperto le rovine di Machu Picchu il 24 Luglio del 1911. Sono cinque miglia di strada costruita nel fianco di una montagna che è alta più di un migliaio di piedi dal canyon alla base, dove siamo adesso, fino alle rovine di Machu Picchu in cima. Ci sono in tutto tredici svolte”.

“Tredici è un numero sfortunato”, annunciò Carol, alzandosi per unirsi a tutti gli altri che guardavano fuori dal finestrino.

“Grazie per essere resuscitata abbastanza a lungo da portarci questo pizzico di buon umore tanto atteso”, rispose Diana.

“Solo per favore non ditemi che dovrò camminare fin sopra quella montagna”, disse Carol. Se fosse stato così, era ovviamente pronta a rimanere sul treno.

“Fortunatamente, non è più richiesto di camminare o prendere gli asini. Hanno mandato dei camioncini per essere usati nel tragitto turistico”.

“Camioncini?” chiese Diana.

“Piccoli autobus. Di solito Volswagen”.

“Grazie Dio per i Tedeschi!” disse Carol.

“In realtà, penso che un asino sarebbe stato più divertente”, fu il commento di Diana, che provocò un sorriso da parte di Sloane e un ma sei pazza? gemito da parte di Carol.
“Bene, signore, se non avrò la possibilità di dirvi addio nella confusione della scesa dal treno, lasciatemi ringraziarvi ora per la vostra compagnia”. Sloane si stava rivolgendo ad entrambi, ma stava guardando Diana per tutto il tempo. Diana sentiva una definitiva fitta di rimorso, intuendo che in realtà aveva sperato che lui sarebbe andato alle rovine con loro. Doveva ammettere che le sarebbe mancata la scossa d’eccitamento che questo uomo aveva stranamente aggiunto alla sua vita.

“Ma sicuramente ci vedremo in cima?” disse Carol, non nascondendo la sua speranza di essere risparmiata da ogni altro altro contatto, possibilmente incriminante, con l’uomo.
“Mi spiace ma rimarrò qui alla base”, rispose Sloane. “Devo incontrare degli amici per un’escursione d’alcuni giorni”.

“Vi assicurerete di stare attento ai giaguari che mangiano gli uomini, vero, Signor Black?” disse Carol, incominciando a raccogliere le sue cose. “Ho sentito che imperversano da queste parti”.

Il treno era quasi del tutto fermo.

“Grazie per la sua preoccupazione”, disse Sloane. Tuttavia stava parlando alla schiena di Carol, perché lei aveva già guadagnando un’uscita dal traffico di persone per scivolare nel passaggio, dove Al era indaffarato a cercare di indirizzare il suo gruppo.

“Mi spiace che la nostra piccola messa in scena non abbia ingannato molto la vostra amica”, sussurrò Sloane a Diana, indirizzandole un ampio sorriso, quando Carol fu lontana dalla portata d’orecchio. “E’ molto intuitiva”.

“Più probabilmente, io sono una pessima bugiarda”.

“Anche questo potrebbe essere”, ammise lui con naturalezza.

Il vagone era quasi vuoto.

“Beh, Signorina Green, è stato certamente piacevole incontrarvi - ancora”.

“Ed è stato… beh, interessante incontrarvi - ancora”.

“Se è il massimo che posso sperare”, rispose Sloane con un sorriso, “Penso che sarà tutto quello che avrò”. Entrambi si alzarono, Sloane lasciò che Diana si incamminasse verso il passaggio davanti a lui. “Sapete, sono abbastanza tentato di chiedervi un altro bacio d’addio”, aggiunse a voce bassa.

Diana poteva sentirlo vicino dietro di lei, il suo caldo respiro che stuzzicava la curva sensibile del suo collo. Girò la testa leggermente. “Se ottienete un bacio ogni volta che ci diciamo addio”, disse lei stuzzicandolo, gli occhi che scintillavano, “finirò per baciarvi più spesso di quanto ho fatto con alcuni dei miei fidanzati fissi”.

Il treno era ormai completamente vuoto. Mentre si avvicinavano all’uscita, Diana sentì la mano di Sloane sulla sua spalla, dita magre premevano gentilmente sulla pelle liscia, e capì che in realtà ci aveva sperato.

“Diana”, disse lui. Solo “Diana”, ma causò dei piccoli brividi sconosciuti lungo la sua spina dorsale. Lei si girò verso di lui, ancora una volta colpita dalla sua pura presenza fisica mentre guardava nei suoi occhi, vedendo quelle penetranti pupille nere circondate dalle loro iridi castane.

“Ti ho davvero creduto quando hai detto che non avresti chiamato Sipas dall’albergo a Cuzco”, le disse. “Davvero, l’ho fatto. Ma dovevo esserne sicuro, controllare ogni aspetto, non capisci? E’ così importante per me localizzare quell’aeroplano precipitato”.

“Pensavo che fosse ovvio che ti avevo già perdonato”, replicò lei leggermente, un tremore che la percorreva a causa del modo urgente con cui i suoi occhi stavano scandagliando la sua faccia.

Lui prese la sua mandibola con la mano destra. Il suo palmo contro la sua pelle era reso sensualmente ruvido dai calli.

“In un certo senso, vorrei averti incontrato in un altro momento, in un altro posto… certamente in condizioni migliori”, continuò lui.

“D’altra parte, probabilmente è molto meglio così”, sospirò Diana, domandandosi se credeva veramente a quello che stava dicendo.

“Forse”. Ammise lui, sembrando non più convinto di lei.

I suoi occhi imprigionarono quelli di lei con uno sguardo interrogativo, sebbene Diana non pensasse di conoscere la domanda – o la risposta. Sapeva che c’era un magnetismo misterioso che sembrava attrarla a fondo in quegli ipnotici occhi neri punteggiati di castano, costringendola ad avvicinarsi a loro. Sloane ne approfittò facendosi avanti per afferrarla e avvolgerla nelle sue braccia. Le sue ciglia, folte e lunghe, accarezzarono la sua guancia soffice mentre le sue labbra toccarono e poi si posarono fermamente sulla sua bocca.

Lei intuì la risultante corrente sotterranea di pericolo che accompagnava il loro bacio, proprio come l’aveva sentita in albergo a Cuzco la prima volta che lui l’aveva baciata: una combinazione quasi erotica di desiderio e paura, piacere e panico. Tuttavia, avendo affrontato con successo e superato il pericolo in precedenza, si sentì molto più sicura nel fronteggiarlo adesso, che poteva essere il motivo per cui non fece nessuna mossa immediata per ritirarsi.

Lui dopotutto sarebbe stato fuori dalla sua vita una volta lasciato il treno, rimuovendo con lui la minaccia, qualunque fosse, che misteriosamente offriva. E Diana si sentiva obbligata a conservare quanti più ricordi possibili di questa risposta quasi dolorosamente unica che questo uomo, come nessun altro prima di lui, era sembrato capace di risvegliarle dentro. Allo stesso tempo, non era sicura se fosse sollevata o dispiaciuta dalla sua intuizione che probabilmente non ci sarebbe mai stato un altro uomo nella sua vita che poteva toccarla nel modo in cui faceva Sloane.

Mentre le sue labbra si attardavano sempre di più, sempre muovendosi in una gentile carezza che aumentava ancora di più lo squisito fuoco che arrossava le sue guance e riscaldava il suo corpo, il buon senso di Diana alla fine la avvertì che si era lasciata portare in un terreno decisamente pericoloso.

Oh, sapeva che non c’era modo che succedesse qualcosa in quel momento; dopo tutto, erano in un vagone di un treno, e presto Al o Carol sarebbero tornati indietro per controllare cosa la stesse trattenendo così a lungo. Quando il suo gruppo avrebbe lasciato Machu Picchu più tardi nel pomeriggio, tuttavia, Diana sarebbe rimasta per un’intera settimana senza Al o Carol lì a controllare la sua sicurezza. E sebbene Sloane avesse detto che a breve sarebbe andato nella giungla, c’era sempre una possibilità, forse attraverso lo stesso scherzo del destino che li aveva attirati ancora insieme in precedenza, che lui si presentasse all’albergo sulla montagna. Probabilmente equivocando le ragioni dietro l’attuale arrendevolezza di Diana, poteva fraintendere il suo comportamento come un invito per prendersi altre libertà – se e quando lui l'avesse trovata disponibile. La qual cosa certamente doveva essere scoraggiata ad ogni costo!

Dicendo a se stessa che era in torto nel pensare d’essere capace di gestire il tipo di sfida che questo uomo rappresentava, allacciò entrambe le mani sul suo petto – quanto duro e squisitamente muscoloso era il suo corpo contro il palmo delle sue mani – e fermamente lo respinse.

“Dobbiamo davvero smetterla di incontrarci in questo modo”, disse Diana nervosamente, cercando di sembrare leggera nella speranza di disperdere un po’ dell’elettricità da accapponare la pelle che si era creata tra di loro.

“Si, è frustrante come l’inferno, non è vero?” Il suo commento confermava solo che lui aveva frainteso la sua risposta per qualcosa di molto più serio di quanto Diana diceva a se stessa che fosse – o che avesse mai avuto intenzione che fosse.

“Devo davvero andare”, disse Diana, domandandosi se era possibile arrossire ancora. Non arrossiva da anni – fino a di recente. “Carol starà senza dubbio pensando che mi hai rapita, o qualcosa di altrettanto orrendo!”

Si girò, dirigendosi rapidamente lungo il passaggio verso l’uscita e uscendo alla luce accecante del sole peruviano. Sloane la seguiva subito dietro di lei.

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Later, feeling surprisingly refreshed after a short nap, she put on a clean dress, applied a little makeup and combed the tangles out of her corn-colored hair. Examining herself in the mirror, she decided she looked better than she had in a long time.

She left her room, determined to have a small glass of chicha de jora that very evening.

The hotel guests had obviously come out of hibernation; several tables were occupied in the progressing darkness. Already, most of the canyon was lost in shadow, the Urumbamba no longer even distinguishable in the gloom, the blue sky faded to misty gray, the twilight mutin even the yellow of the Hiram Bingham Road. The greens, though, were still there, only a deeper shade: thick velvet mantling the hillsides.

Diana strolled out on the patio, looking for the waiter . . . and found Sloane Hendriks instead. Immediately, she experienced a resurgence of emotions she had assumed were safely dormant. Sloane somehow unlocked them from those recesses to which Diana had relegated them, doing so without her will, simply by his being there.

"Diana?”

He had seen her immediately and was quickly on his feet and moving towrd her. She gave him both of her hands, slightly embarrassed that most of the people on the veranda had turned in their direction. She felt that dangerous spark of electricity passing from his fingers into hers, fearing what easily combustible tinder it might find somewhere inside of her.

“This doesn’t mean there’s another goodbye kiss in the offing, does it?” Diana asked, her throat gone dry.

“But this is marvelous!” Sloane said. “Absolutely marvelous! And I was just thinking what a shame it was I had no one with whom to share the beauty of a Machu Picchu sunset.”

“You’re certainly waxing poetic this evening, aren’t you?” Diana said as Sloane, dropping her left hand but still holding her right, led her from the veranda and toward the ruins.
“I thought you would be miles away by now,” she said.

“So did I,” Sloane said, just an edge of chagrin creeping into his otherwise cheerful voice. “There’s been another delay, but I’m waiting now for final word. And what better way to wait than with you? Whatever, by the way, are you still doing here?”

“Working,” Diana said. “One of my better researched travel pieces is scheduled to come out of my stay here.”

“And the rest of your group?”

“Gone,” she answered, thrilling with the realization that all of her previous chaperons had left her at this man’s mercy.

“Even Miss Wiley?”

“Even Miss Wiley,” was her response. At the same time, she wondered why she hadn’t at least pretended Carol was still standing guard in the wings.

“You never once mentioned you would be staying over,” Sloane accused good-naturedly.

“I didn’t see much point, considering you were supposed to be long gone by now.”

They walked near the small gate giving access to the major pathway into the ruins. There was a gathering of Indians around the gate, but no one stopped the couple, the man on official duty merely opening the barricade to let them stroll through, nodding a greeting that said, without words, that he still remembered what it was like to be young and in love.

They passed the rest station made from one of the ruined smaller buildings. During the hours of the daily swarm of turistas, all of the benches were usually filled, because there was such an excellent view of the terraced ruins.

Diana watched a lacy wisp of mist cling to the top of Huayna Picchu and then be whipped away by a breeze sweeping up from the canyon.

Sloane stopped and with his free hand pointed skyward. “Condors!” he said. Diana could pick out the large-winged birds gliding on the late afternoon updrafts. “Usually, the typical tourist leaves too early to see them.”

“They look enormous!”

“They are, many with wingspans of ten feet or more. They’re really vultures, ysou know, sometimes known to eat so much at one sitting that they can’t even fly until their meal is partially digested. If attached while stuffed, they’re particularly vulnerable.”

Diana found Sloane’s voice pleasant, and she hung on every word as he next pointed toward the summit of Huayna Picchu. “See the terraces way up there?” Diana did see them, surprisingly for the very first time. They were small parallel lines high up on the face of the steep mountain.

“The Incas farmed even those hard-to-reach spaces,” he told her. “They terraced as a means of avoiding erosion, hauling fertile soil up from the valleys, lugging it up the slopes in baskets and other containers, because the soil up here wasn’t rich enough for their crops to thrive.

“Marvelous people, the Incas!” he continued. “Machu Picchu was built on a route that connected the torrid regions of the Antis Indians, after whom the Andes were named, to Cuzco, capital of the fabulous Incan Empire. It was only one of several outposts built, many believe, as a last-ditch attempt to save the fading empire from the advancing Spaniards. To the north, there were other latter-day cities of importance, like Vitcos and the legendary Vilcabamba Grande.”

Something told Diana that Sloane’s knowledge was the result of genuine interest. He wasn’t delivering a tired discourse that had become dull around the edges.

They paused at yet another vantage point, giving them an exceptional view of the multiple layers that made up the city, virtually thousands of narrow stairs connecting one level to another. Sloane extended his arm and began a slow sweep of the vista.

“The main temple, the sacred square, the temple of the three windows . . . and the Intihuatana, or ‘stone to which the sun was tied,’” he explained, pointing out the stone. Carved from a single block, it’s one of the few left intact in the country; most of the others were pulled down and broken up by Spanish missionaries who said they were monuments to a pagan god.”

“Why didn’t you become an archaeologist?” Diana asked. “It’s obvious that you’re keen on the subject.”

“Yes, well, that is a rather long and complicated story.”

“I seem to have plenty of time available this evening, unless, of course, the hotel has festivities planned of which I’m currently unaware.”

“I’m not really sure the story bears repeating,” Sloane said.

Diana didn’t press, but she was curious. A reporter’s instinct told her the best way to get this particular story was not by rushing in and pushing for it; yet, it wasn’t the reporter in her that wanted so desperately to hear it.

“Actually, it was all just a fanciful day-dream,” Sloane said. The path intersected a stairway, and he sat down on one of the steps where Diana quickly joined him. It was quiet and growing darker, the mountains acquiring a faint nimbus, the valleys becoming completely drenched in darkness. “In the long run, I think, I’m infinitely better suited to my present profession than I ever would have been to archaeology.”

“You’re not retired, then, like Mr. Culhaney?”

“Lord, no!”

“So, what do you do for a living, besides go chasing after airplane wreckage in the wilderness?”

“I raise coffee, mainly.”

“Coffee? Really?”

“Does that surprise you?”

“A little.”

“Why? Whatever did you think I did for a living?”

“Professional criminal?” Diana suggested jokingly, and Sloane laughed.

“I guess that I assumed you were somehow connected with flying,” she said. “I mean, it sounded as if both your father and brother had been involved in that field.”

“My father was one of those men who are always looking for the pot of gold at the end of some rainbow,” Sloane said, picking up a small stone and tossing it. It bounced three times on the steps and then skipped out over the edge of the precipice into silence.

“His father and his father’s father were all a rather nondescript lot, from what I’ve been able to gather. All hardly eking out a living doing odd jobs here and there. My father was too young for World War I, but World War II sucked him up in the draft, and he went off to fight the Germans. When it was all over, he had the skills to fly an airplane, a game leg, a few thousand dollars, and awareness that there was more to the world than the cattle ranches of Montana.”

“Your people were American?”

“Still are. Only South American. My father took out Brazilian citizenship.”

“Your mother?”

“She came with him,” Sloane answered. “But she didn’t last long in the places my father dragged her. I used to blame him, you know. Although Jack — usually when he was drunk — was always insisting that it wasn’t the old man’s fault. ‘She wouldn’t let him leave her behind, Sloane,’ Jack would say. ‘She said if it was a choice of dying with him or without him, she would take the dying with him any day.’ So, they both ended up dead in Brazil.”

"I’m sorry.”

“Oh, we all die — someday,” Sloane remarked stoically.

“I still don’t understand about the coffee,” Diana said, diplomatically hoping to move the conversation away from its morbid vein. Around them, the ruins grew more ghostly beautiful as the evening faded into darkness.

“My father got his hands on a secondhand airplane and began flying supplies into the Brazilian interior. On the way out, he would fly whatever cargo was available: men who had given up and were heading home, men who had made it big and were heading home, letters for home . . . .”

“Indian artifacts?” Diana added when Sloane’s voice trailed off into silence. Above them, she could sense the condors still circling, although it was too dark to see them.

“Yes, Indian artifacts,” Sloane agreed finally.

“Coffee, too?”

“No, not coffee,” Sloane said with a laugh, standing. “Come on, we had better get back before we end up tripping over something dangerous in the dark.”

Diana was disappointed when he still hadn’t cleared u the mystery of when the Hendriks family had got involved in coffee. She was even more disappointed that “Sloane hadn’t allowed her a more intimate glimpse of his past, because there was something tremendously enjoyable about receiving each new clue, anticipating it as being the vital key to unlock the total mystery of the dangerous fascination Sloane Hendriks held for her.

He took her hands and pulled her to her feet, but not just to her feet. His guiding movement brought her up into his arms, where she was once again made aware of the hard, muscled body concealed beneath his clothing. She looked up into his facae as he drew her even closer. He kissed first her forehead, then her nose, then opened her yielding lips with the pliantly demanding pressure exerted by his own.

In an instant, the whole gamut of those conflicting emotions that had plagued Diana during their two previous kiss came flooding back to her in a tidal wave of confusion that left her mentally flounder in Sloane’s arms. It was just this sort of kiss — and this sort of confusion — she had feared the last time he had held her in the empty train car. She had broken that kiss before she led Sloane to any false conclusions. Yet, she had aided and abetted this kiss by having admitted she was now alone, without protection of traveling companions.

It concerned her that she might have subconsciously been plotting for this to happen, her thoughts having been all the silent incantation needed to conjure Sloane Hendriks on the spot. Such fear was only multiplied when she realized that, despite the way she resisted wrapping her arms around his neck, she was no more convinced than ever that he was capable of making any kind of commitment to her, or to any woman. She still felt incapable of surrender to nay man not prepared to offer at least an equal emotional investment in their relationship. She suddenly feared she might seem merely a tease, giving the illusion of offering something to Sloane that, considsering the circumstances, he simply couldn’t have. With that disturbing thought in mind, Diana knew she had to be honest enough with herself and with Sloane to end this whole masquerade before it became even more difficult to do so.

It was Sloane, however, who suddenly broke the kiss, his eyes focusing on the darkness deepening amid the ruins over Diana’s shoulder.

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Più tardi, sorprendentemente rinfrescata dopo un breve sonnellino, indossò un abito pulito, mise un po’ di trucco e tolse con il pettine i nodi dai suoi ricci capelli color del grano. Guardandosi allo specchio, decise che stava meglio di quanto era stata da molto tempo.

Lasciò la sua stanza, determinata ad avere un piccolo bicchiere di chicha de jora proprio quella sera.

Gli ospiti dell’albergo erano ovviamente usciti fuori dal loro stato d’ibernazione; diversi tavoli erano occupati nell’oscurità che aumentava. Già la maggior parte del canyon era perso nelle ombre, la Urumbamba non più distinguibile nell’oscurità, il cielo azzurro sbiadiva in un nebbioso grigio, il crepuscolo faceva scomparire anche il giallo della Hiram Bingham Road. I verdi, tuttavia, erano ancora lì, solo in ombre più intense: velluto pesante che copriva le colline.

Diana bighellonò nel patio, cercando il cameriere… e trovò invece Sloane Hendricks. Immediatamente, sperimentò un rinnovarsi di emozioni che aveva dato per scontato fossero sopite. Sloane in qualche modo le liberava da quei recessi in cui Diana le aveva relegate, facendolo senza il suo consenso, semplicemente essendo lì.

“Diana?”

Lui l’aveva vista Immediatamente e fu rapidamente in piedi dirigendosi verso di lei.

Lei gli diede entrambe le mani, leggermente imbarazzata che molte delle persone sulla terrazza si girarono nella loro direzione. Sentì quella pericolosa scintilla d’elettricità passare dalle dita di lui alle proprie, temendo che potesse trovare del materiale facilmente incendiabile da qualche parte dentro di lei.

“Questo non significa che ci sarà un altro bacio d’addio in vista, non è vero?” chiese Diana, la sua gola improvvisamente secca.

“Ma è meraviglioso!” disse Sloane. “Assolutamente meraviglioso! E stavo proprio pensando che fosse un peccato non avere nessuno con cui condividere la bellezza di questo tramonto sul Machu Picchu”.

“Sei certamente un poeta sdolcinato questa sera, non è vero?” disse Diana mentre Sloane, lasciando andare la sua mano sinistra ma mantenendo la presa sulla destra, la conduceva dalla veranda verso le rovine. “Pensavo che saresti stato miglia lontano in questo momento”, disse lei.

“Anch’io”, disse Sloane, solo un leggero tocco di dispiacere incrinò la sua voce altrimenti vivace. “C’è stato un altro ritardo, ma ora sto aspettando la parola finale. E cosa c’è di meglio se non aspettare con te? In ogni modo, cosa ci stai facendo ancora qui?”

“Lavoro”, disse Diana. “Uno dei miei migliori reportage di viaggio è previsto che esca come risultato della mia permanenza qui”.

“E il resto del tuo gruppo?”

“Andati”, rispose lei, eccitata capendo che tutti i suoi precedenti accompagnatori l’avevano lasciata alla mercé di quest’uomo.

“Anche la signorina Wiley?”

“Anche la signorina Wiley”, fu la sua risposta. Allo stesso tempo, si domandò perché non avesee almeno finto che Carol fosse ancora di guardia tra le quinte.

“Non hai mai accennato al fatto che saresti rimasta”, la accusò Sloane con tono leggero.

“Non ne vedevo il motivo, considerando che era previsto che tu te ne saresti andato da molto”.

Si avvicinarono al piccolo cancello che forniva l’accesso al tracciato principale tra le rovine. C’era un gruppo d’Indiani intorno al cancello, ma nessuno fermò la coppia, l’uomo incaricato del turno aprì semplicemente la barricata per lasciarli passare, facendo un cenno di saluto che diceva, senza parole, che ricordava ancora cosa significasse essere giovani e innamorati.

Passarono la stazione di sosta ricavata da uno degli edifici più piccoli in rovina. Durante le ore dell’odierno sciame di turisti, tutte le panche erano di solito piene, perché c’erano delle stupende vedute sui terrazzamenti delle rovine.

Diana osservò un leggero velo di nebbia che copriva la cima del Huayna Picchu e che fu poi spazzato via da una brezza che arrivava dal canyon.

Sloane si fermò e con la sua mano libera indicò il cielo. “Condor!” disse lui. Diana poté scorgere gli uccelli dalle larghe ali che volavano nella corrente del tardo pomeriggio. “Di solito, i normali turisti se ne vanno troppo presto per vederli”.

“Sembrano enormi!”

“Lo sono, molti hanno un’apertura alare di dieci piedi e anche più. In realtà sono avvoltoi, sai, qualche volta mangiano così tanto in una volta sola che non sono neanche capaci di volare fino a che il loro pasto non è parzialmente digerito. Se attaccati mentre sono pieni, sono particolarmente vulnerabili”. Diana trovava la voce di Sloane, e pendeva dalle sue labbra per ogni parola mentre lui indicava di seguito la cima del Huayna Picchu. “Vedi i terrazzamenti là in cima?” Diana li vedeva, sorprendentemente per la prima volta. C’erano delle piccole linee parallele in alto sul fianco della ripida montagna.

“Gli Incas coltivavano anche quei terreni così difficili da raggiungere”, le disse lui. “Li terrazzavano per evitarne l’erosione, portando terreno fertile su dalle valli, riempiendo i pendii con canestri e altri contenitori, perché il terreno là su non era abbastanza ricco per dei raccolti profittevoli”.

“Gente meravigliosa, gli Incas!” continuò lui. “Machu Picchu fu costruita sulla strada che collegava le regioni torride delle Antis Indians, da cui prendono il nome le Ande, a Cuzco. Capitale del favoloso Impero Incas. Molti credono che sia solo uno dei molti avamposti costruiti, come un ultimo tentativo di salvare l’impero che stava scomparendo con l’avanzata degli Spagnoli. A nord, ci sono altre città importanti più recenti, come Vitcos e la leggendaria Vilcabamba Grande”.

Qualcosa diceva a Diana che la conoscenza di Sloane era il risultato di un interesse sincero. Non le stava proponendo un discorso trito che era diventato noioso con il tempo.
Si fermarono in un altro punto strategico, che forniva una vista eccezionale dei diversi strati che formavano la città, virtualmente migliaia di strette scale che collegavano un livello all’altro. Sloane protese il braccio e cominciò un lento movimento per descrivere il panorama.

“Il tempio principale, la piazza sacra, il tempio delle tre finestre… e la Intihuatana, o “pietra cui era legato il sole””, spiegò lui, indicando la pietra. “Scolpita da un singolo blocco, è una delle poche lasciate intatte nel paese, molte delle altre furono abbattute e distrutte dai missionari spagnoli che le accusavano d’essere monumenti ad un dio pagano”.

“Perché non sei diventato un archeologo?” chiese Diana. “E’ ovvio che sei un appassionato della materia”.

“Si, beh, questa è una storia piuttosto lunga e complicata”.

“Sembri avere molto tempo in questo momento, a meno che, naturalmente, l’albergo non abbia dei festeggiamenti pianificati di cui io non sono al corrente”.

“Non sono davvero sicuro che la storia possa essere ripetuta” disse Sloane.

Diana non fece pressioni, ma era curiosa. Il suo istinto da giornalista le diceva che il modo migliore per ottenere questa particolare storia non fosse affrettarsi e spingere; tuttavia, non era la giornalista in lei che voleva così disperatamente sentirla.

“In realtà, era solo un sogno fantasioso ad occhi aperti”, disse Sloane. Il percorso incrociava una scala, e lui si sedette su uno degli scalini dove Diana lo raggiunse rapidamente. Era calmo e l’oscurità stava aumentando, le montagne diventavano una debole aureola, le valli completamente bagnate dall’oscurità. “Alla lunga, penso, di essere decisamente più adatto alla mia attuale professione di quanto mai sarei stato come archeologo”.

“Non sei in pensione, quindi, come il Signor Culhaney?”

“Mio Dio, no!”

“Così, cosa fai per vivere, a parte dare la caccia ad aeroplani precipitati nella foresta selvaggia?”

“Coltivo caffè, principalmente”.

“Caffè? Davvero?”

“Ti sorprende?”

“Un poco”.

“Perché? Cosa pensavi che facessi per vivere?”

“Una professione criminale?” suggerì Diana scherzando, e Sloane rise.

“Penso che ho dato per scontato che tu fossi in qualche modo connesso con l’aviazione”, disse lei. “Intendo, sembrava logico visto che sia tuo padre che tuo fratello erano coinvolti in quel campo”.

“Mio padre era uno di quegli uomini sempre alla ricerca della pentola d’oro alla fine di qualche arcobaleno”, disse Sloane, raccogliendo un sassolino e gettandolo. Rimbalzò tre volte sugli scalini e poi saltò oltre il limite del precipizio in silenzio. “Suo padre e il padre di suo padre erano tutti un gruppo piuttosto particolare, da quello che ho potuto intuire. Tutti sopravvivevano facendo lavoretti strani qua e là. Mio padre era troppo giovane per la Prima Guerra Mondiale, ma la Seconda Guerra Mondiale lo risucchiò, e lui finì a combattere contro i Tedeschi. Quando fu tutto finito, aveva la capacità di far volare un aeroplano, una gamba zoppicante, e qualche migliaia di dollari, e la consapevolezza che c’era di più al mondo che alcuni allevamenti di mucche nel Montana”.

“I tuoi parenti sono Americani?”

“Ancora lo sono. Solo Sud Americani. Mio padre prese la cittadinanza brasiliana”.

“Tua madre?”

“Lo seguì”, rispose Sloane. “Ma non resistette a lungo nei posti in qui la trascinava mio padre. Ero solito incolparlo, sai. Sebbene Jack – di solito quando era ubriaco – ha sempre sostenuto che non era colpa del nostro vecchio “Lei non gli avrebbe permesso di lasciarla indietro, Sloane”, era solito dire Jack. “Diceva che se c’era la scelta di morire con lui o senza di lui, avrebbe sempre scelto di morire con lui tutti i giorni”. Così, entrambi finirono per morire in Brasile”.

“Mi spiace”.

“Oh, tutti moriamo – prima o poi” rimarcò stoicamente Sloane.

“Ancora non capisco la questione del caffè”, disse Diana, sperando diplomaticamente di spostare la conversazione lontana da questo punto debole. Intorno a loro, le rovine diventavano spettralmente sempre più belle mentre la sera svaniva nell’oscurità.

“Mio padre mise le mani su un aeroplano di seconda mano e incominciò a trasportare rifornimenti nell’entroterra brasiliano. Sulla rotta di ritorno, trasportava qualsiasi carico disponibile: uomini che avevano rinunciato e stavano tornando a casa, uomini che avevano sfondato e stavano tornando a casa, lettere indirizzate a casa…”

“Manufatti indiani?” aggiunse Diana quando la voce di Sloane si affievolì fino al silenzio. Sopra di loro, poteva sentire i condor, che continuavano a volare in circolo, sebbene fosse troppo buio per vederli.

“Si, manufatti indiani”, concordò finalmente Sloane.

“Anche caffè?”

“No, non caffè”, disse Sloane con una risata. “Dai andiamo, è meglio che torniamo indietro prima che ci imbattiamo in qualcosa di pericoloso nel buio”.

Diana era delusa dato che lui non aveva ancora chiarito il mistero di come gli Hendricks erano finiti a commerciare caffè. Era ancora più dispiaciuta che Sloane non le avesse permesso un accenno ancora più intimo del suo passato, perché c’era qualcosa di tremendamente piacevole nel ricevere ogni nuovo indizio, anticipandolo come la chiave decisiva per svelare il mistero totale del fascino pericoloso che Sloane Hendricks aveva per lei.

Lui prese le sue mani e la fece mettere in piedi, ma non solo in piedi. Il suo movimento la portò tra le sue braccia, dove lei fu ancora una volta consapevole del corpo duro e muscoloso nascosto sotto i suoi abiti. Guardò la sua faccia mentre lui la attirava sempre più vicino. Lui le baciò la fronte, poi il naso, poi aprì le sue labbra vogliose con la pressione chiaramente esigente esercitata dalle sue.

In un attimo, l’intera gamma di quelle emozioni contrastanti che avevano tormentato Diana durante i loro due baci precedenti le si riversarono addosso in un’ondata di confusione che la lasciò ad agitarsi mentalmente tra le braccia di Sloane. Era proprio questo tipo di bacio – e questo tipo di confusione – che lei aveva temuto l’ultima volta che lui l’aveva stretta tra le braccia nella carrozza vuota del treno. Aveva interrotto quel bacio prima che potesse portare Sloane ad ogni falsa conclusione. Tuttavia, aveva aiutato e favorito questo bacio avendo ammesso che era sola adesso, senza la protezione dei compagni di viaggio.

La preoccupava che lei avesse potuto inconsapevolmente pianificare che questo accadesse, i suoi pensieri erano stati tutta l’infatuazione silenziosa necessaria per attirare Sloane Hendricks in questo posto. Tale paura fu solo intensificata quando capì che, a dispetto del modo in cui lei resisteva alla tentazione di avvolgere le sue braccia intorno al suo collo, non era poi così convinta come prima che lui non fosse capace di prendersi un impegno con lei, o con ogni donna. Lei non si sentiva ancora pronta a concedersi ad un uomo che non fosse pronto ad offrire almeno un uguale coinvolgimento emotivo nella loro relazione. Improvvisamente temette di potere apparire una semplice tentazione, dando l’illusione di offrire qualcosa a Sloane che, considerate le circostanze, lui semplicemente non poteva avere. Con quel fastidioso pensiero in mente, Diana sapeva che doveva essere abbastanza onesta con se stessa e con Sloane da finire questa messa in scena prima che diventasse troppo difficile farlo.

Fu Sloane, tuttavia, che improvvisamente interruppe il bacio, i suoi occhi che si focalizzavano nell’oscurità profonda tra le rovine sopra la spalla di Diana.

Blurb of Beyond Machu: Take an exotic trip to the Incan city of Machu Picchu-and beyond-to discover romance and adventure!

Enter a jungle of passion, greed, and danger. Take a wild trip Beyond Machu and discover high adventure, hot sex, and true love! Two gay men must gather their strength and courage to travel to the ancient Incan city of Machu Picchu, dodging bullets, unsavory villains, and even jaguars-in search of lost ruins and hidden treasure. This thrilling romance gallops from the hotels of Lima, Peru to the exotic once-lost city, and then beyond into the impenetrable South American jungle rife with perils. Will our heroes get out alive? Will they ever find true love together?

Dan Green, investigative reporter to his very soul, finds himself shunted off on what he thinks is a simple travel piece for his newspaper-all because his overprotective and highly influential mother fears for his safety. Through a chance meeting with the handsome and incredibly sexy Sloane Hendriks, he is yanked from his comfortable surroundings into the jungles of Peru-and to the ancient ruins of Machu Picchu. Whenever Dan thinks he's seen the last of the irrepressible Sloane, the hunk reappears, beguiling and irresistible. Sloane is a man whose past holds more than a few dark secrets, yet he enflames Dan's passion beyond all reason. And through it all Dan smells a newspaper story here, in the rampant exploitation of illicit archeological finds by shady characters. He knows he cannot let the opportunity pass. Soon he discovers just how dangerous a healthy curiosity can actually be.

Sloane was trying to grab the blade-blown sling when Dan finally reached him to capture the lifeline and pass it over. Sloane attached it to Eduardo who (thank God!) was passed out and unaware of the pain that the none-too-gentle maneuver would have otherwise caused him.

What does Sloane's past have to do with an expedition into the perilous jungle? Is Sloane somehow furtively involved in a search for gems? Who is the mysterious Eduardo Jacos, and what is his connection to priceless artifacts from the ancient city's ruins? For a thrilling ride of romance, sex, and high adventure, read Beyond Machu and have the time of your life!

Fate un viaggio esotico alla città Inca di Machu Picchu - e oltre - per scoprire romance e avventura!

Entrare in una giungla di passione, di invidia e pericolo. Fate un viaggio selvaggio oltre Machu e scoprire l'alta avventura, il sesso caldo e il vero amore! Due uomini gay devono unire le loro forze e coraggio per andare nelle antica città Inca di Machu Picchu, evitando pallottole, furfanti poco educati e perfino giaguari - alla ricerca delle rovine perdute e di un tesoro nascosto. Questo romance eccitante galoppa dagli hotel di Lima, Perù alla esotica città una volta persa, e poi di là nella giungla impenetrabile del Sud America piena di pericoli. I nostri eroi usciranno vivi? Troveranno mai insieme l'amore vero?

Dan Green, reporter investigativo nella sua vera anima, si ritrova deviato su quello che pensa essere una semplice viaggio per il suo giornale - tutto perché la madre iperprotettiva ed altamente influente teme per la sua sicurezza. Con una possibilità di incontrate l'affascinante ed incredibilmente sexy Shane Hendriks, è portato via dai suoi dintorni comodi nelle giungle del Perù - e alle rovine antiche di Machu Picchu. Ogni volta che Dan pensa di aver visto per l'ultima volta l'irreprensibile Sloane, il bel pezzo d'uomo riappare, ingannevole e irresistibile. Sloane è un uomo il cui passato ha più di alcuni segreti oscuri, tuttavia lui accende la passione di Dan oltre ogni ragione. E attraverso tutto questo Dan sente l'odore di un articolo giornalistico, nello sfruttamento sfrenato dei ritrovamenti archeologici illeciti da parte di personaggi oscuri. Sa che non può lasciarsi scappare la possibilità. Presto scoprirà quanto pericoloso una sana curiosità può realmente essere.

Che cosa il passato di Sloane ha a che fare con una spedizione nella giungla perigliosa? È Sloane in qualche modo furtivamente implicato in una ricerca di gemme? Chi è il misterioso Eduardo Jacos, e qual'è il suo collegamento ai manufatti senza prezzo dalle rovine della città antica? Per un giro eccitante di romance, il sesso e l'alta avventura, leggete Beyond Machu ed avrete il tempo della vostra vita!

Excerpt from BEYOND MACHU
by William Maltese
ISBN: 1560235682
Haworth Press
© 2006

“THERE!” SLOANE POINTED toward the zigzag scar on the side of the mountain. “The Hiram Bingham Road, named after Yale Professor Hiram Bingham who discovered the ruins of Machu Picchu on July 24, 1911. The ruins five miles, thirteen turns, and a thousand feet up from where we are, now, at the canyon bottom.”

“Thirteen, an unlucky number,” Mark said as he joined Dan and Sloane at the window.

“Thanks for reminding everyone of that,” Dan said.

“Just please don’t tell me I’m going to have to walk up that mountain.” If so, Mark was prepared to stay on the train.

“Luckily, you’re no longer required to walk, or take donkeys,” Sloane promised. “They’ve long since shipped in camionetas to move the tourists.”

“Camionetas?” Dan asked.

“Small buses.”

“Thank God!” Mark said.

“Actually, I rather think a donkey would be more fun.” Dan’s comment elicited a smile from Sloane and an are you crazy? groan from Mark.

“Well, gentlemen, if I don’t get to say our farewells during the hassle of detraining, let me thank you now for your company.” Sloane addressed both of them, but he looked at Dan the whole time. Dan felt a definite pang of regret, realizing he’d hoped Sloane was going to the ruins with them. He would miss the edge of excitement this man had an uncanny way of bringing to his life.

“Surely, we’ll see you on top?” Mark couldn’t conceal his hope they’d be saved any such additional and possibly incriminating contact.

“I’m staying, here, at the bottom, to meet friends for a few days of hiking.”

"Watch out for man-eating jaguars, won’t you?” Mark began picking up his things. “I hear they’re running rampant.”The train was almost at a complete stop.

“Thanks for your concern.” Sloane spoke to Mark’s back; Mark was already advantaging a break in the foot traffic that Al herded along the aisle toward the exit. Sloane flashed a wide smile and whispered to Dan when Mark was out of earshot. “Our little charade didn’t much fool your friend.”

“I’ve always been a piss-poor liar.”

“That could be the reason, too,” Sloane agreed good-naturedly; the car was almost empty. “Well, Dan, once again, it’s been nice seeing you.”

“Admittedly, it has been—well, interesting.”

“If that’s the best I can hope for, I’ll take it.” Sloane let Dan step into the aisle ahead of him. “You know, I’m rather tempted to ask for another farewell kiss.”

Dan felt Sloane in close, warm breath tickling the sensitive nape of Dan’s neck. Dan turned his head slightly. “If you got a kiss every time we’ve said goodbye, lately, I’d end up having kissed you more than a steady boyfriend.”

The train was now completely stopped. Dan and Sloane’s car was empty except for them. Sloane’s hand was on Dan’s shoulder, lean fingers pressed gently but firmly.

“Dan?” All Sloane said but, nevertheless, sent little shivers up and down Dan’s spine.

Dan turned toward him, impressed, once again, by the purely physical size of him and by Sloane’s penetrating black pupils surrounded by their unusual and magnetic brown starbursts.

Sloane cupped Dan’s chin in his right hand. His palm was sensuously rough with calluses. “I wish we’d met at another time, in another place—certainly under better circumstances.”

“It’s probably far better this way.” Did Dan really believe that?

“Perhaps.” Sloane was unconvinced. His eyes locked Dan’s in a questioning gaze; Dan was uncertain of the question and the answer. He did know that Sloane possessed a mysterious something that literally drew Dan closer.

Sloane enfolded Dan in muscular arms. His lashes, lush and long, brushed Dan’s tanned cheek; his lips touched and then settled firmly on Dan’s mouth.

Cock-arousing danger accompanied their kiss, just as it had in Cuzco. Dan was more confident in dealing with it this time, not pulling away. Once off the train, Sloane would be out of his life, and Dan felt obligated to store up memories of this brief and disturbingly unique relationship. No time for even quick mutual masturbation, Al or Mark too soon due to check on what already kept Dan so long; Dan never to see Sloane’s naked cock, its hardness only felt between them. Likewise, denied any intimate access to Sloane’s bare and lusciously muscled ass, scalloped abdominals, bull-like balls. No point in crying over spilt milk, or unspilt cum, although Dan should have been less cowed by Sipas and more adventurous in taking advantage.

Kiss finally interrupted, Dan said, “We really must stop meeting like this.” The skin-prickling electricity was in no way alleviated.

“Frustrating as all hell, isn’t it? Color my balls blue.”

“Mark and Al will think I’m kidnapped, or something equally horrendous!” Without wanting to do so, he slipped from Sloane’s arms, moved quickly along the aisle to the exit, and stepped out into bright Peruvian sunshine (and pretty much out of Sloane’s life?).

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“Guardate li!” Sloane indicò la cicatrice irregolare sul lato della montagna. “La Hiram Bingham Road, così chiamata in onore del professore di Yale Hiram Bingham che ha scoperto le rovine di Machu Picchu il 24 Luglio del 1911. Le rovine distano cinque miglia, tredici svolte, e un migliaio di piedi in alto rispetto a dove siamo adesso, alla base del canyon”.

“Tredici, un numero sfortunato”, disse Mark mentre si univa a Dan e Sloane al finestrino.

“Grazie per averlo ricordato a tutti”, disse Dan.

“Per favore, ditemi solo che non dovrò camminare fin sopra quella montagna”. Se fosse stato così, Mark era pronto a rimanere sul treno.

“Fortunatamente, non è più necessario camminare, o prendere gli asini”, promise Sloane. “E’ da molto tempo che hanno cominciato a portare su i turisti con i camioncini”.

“Camioncini?” chiese Dan.

“Piccoli autobus”.

“Grazie a Dio!” disse Mark.

“In realtà, penso che un asino sarebbe stato più divertente”. Il commento di Dan provocò un sorriso da parte di Sloane e un ma sei pazzo? gemito da parte di Mark.

“Beh, signori, se non avrò la possibilità di dirvi addio nella confusione della scesa dal treno, lasciatemi ringraziarvi ora per la vostra compagnia”. Sloane si rivolse ad entrambi, ma guardò Dan per tutto il tempo. Dan sentì una definitiva fitta di rimorso, intuendo che aveva sperato che Sloane andasse alle rovine con loro. Gli sarebbe mancata la scossa d’eccitamento che quest’uomo aveva stranamente portato nella sua vita.

“Sicuramente, la  vedremo in cima?” Mark non poteva nascondere la sua speranza che fosse loro risparmiato ogni altro contatto possibilmente incriminante.

“Io rimarrò qui, alla base, per incontrare alcuni amici e passare alcuni giorni a fare un’escursione”.

“Starete attento ai giaguari che mangiano gli uomini, non è vero?” Mark cominciò a raccogliere le sue cose. “Ho sentito che imperversano da queste parti”.

Il treno era quasi del tutto fermo.

“Grazie per la vostra preoccupazione”. Sloane parlò alla schiena di Mark; Mark si stava già guadagnando un’uscita dal traffico di persone che Al indirizzava lungo il passaggio verso l’uscita. Sloane indirizzò un ampio sorriso a Dan quando Mark fu lontano dalla portata d’orecchio. “La nostra piccola messa in scena non ha ingannato molto il vostro amico”.

“Sono sempre stato un pessimo bugiardo”.

“Questa potrebbe essere la ragione”, concordò Sloane con naturalezza; il vagone era quasi vuoto. “Beh, Dan, ancora una volta, è stato un piacere vedervi”.

“Devo ammettere che è stato – beh, interessante”.

“Se è il massimo che posso sperare, lo accetto”. Sloane lasciò che Dan s’incamminasse verso il passaggio davanti a lui. “Sapete, sono abbastanza tentato di chiedervi un altro bacio d’addio”.

Dan sentì avvicinarsi Sloane, il suo caldo respiro che stuzzicava la curva sensibile del collo di Dan. Dan girò la testa leggermente. “Se ottienete un bacio ogni volta che ci diciamo addio, finirò per baciarvi più spesso di un fidanzato fisso”.

Il treno era ormai completamente fermo. Il vagone di Dan e Sloane era vuoto eccetto che per loro. La mano di Sloane era sulla spalla di Dan, dita magre premevano gentilmente ma fermamente.

“Dan?” disse soltanto Sloane, ma, ciò non di meno, causò piccoli brividi lungo la spina dorsale di Dan.

Dan si girò verso di lui, colpito, ancora una volta, dalla sua pura presenza fisica e dalle penetranti pupille nere di Sloane circondate da iridi castane, poco comuni e magnetiche.
Sloane prese la mascella di Dan con la mano destra. Il palmo era reso sensualmente ruvido dai calli. “Vorrei che ci fossimo incontrati in un altro momento, in un altro posto – certamente in condizioni migliori”.

“Probabilmente è molto meglio così”. Dan ci credeva veramente?

“Forse”. Sloane non era convinto. I suoi occhi imprigionarono quelli di Dan con uno sguardo interrogativo; Dan non ero sicuro né della domanda e neanche della risposta. Sapeva solo che Sloane possedeva qualcosa di misterioso che attraeva letteralmente Dan.

Sloane avvolse Dan in braccia muscolose. Le sue ciglia, folte e lunghe, accarezzarono la guancia abbronzata di Dan; le sue labbra toccarono e poi si posarono fermamente sulla bocca di Dan.

Un pericolo eccitante accompagnava il loro bacio, proprio come a Cuzco. Dan era più a suo agio questa volta, e non si allontanò. Una volta fuori del treno, Sloane sarebbe stato fuori della sua vita, e Dan si sentiva obbligato a conservare dei ricordi di questa relazione breve e unica in modo quasi doloroso. Neanche il tempo per una seppur veloce masturbazione reciproca, Al o Mark fin troppo presto si sarebbero sentiti in dovere di controllare che cosa stesse trattenendo così a lungo Dan; Dan non avrebbe mai visto il pene nudo di Sloane, la sua rigidità sentita solo tra loro. Allo stesso modo, gli era negato ogni intimo accesso al sedere nudo e deliziosamente muscoloso di Sloane, ai suoi addominali scolpiti, ai pesanti testicoli. Non valeva la pena piangere sul latte versato, o sullo sperma non versato, sebbene Dan avrebbe dovuto essere meno intimidito da Sipas e più avventuroso nell’approfittarsene.

Quando il bacio alla fine s’interruppe, Dan disse, “Dobbiamo davvero smetterla di incontrarci in questo modo”. L’elettricità che faceva accapponare la pelle per niente alleviata.
“Frustrante come l’inferno, non è vero? Prova ad immaginare i miei testicoli blu”.

“Mark e Al penseranno che sia stato rapito, o qualcosa di altrettanto orrendo!” Malvolentieri, scivolò via dalle braccia di Sloane, avviandosi velocemente lungo il passaggio verso l’uscita, e uscì alla luce accecante del sole peruviano (e probabilmente fuori della vita di Sloane?).

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Later, surprisingly refreshed after a short nap, he splashed his face with cold water, put on clean clothes, combed the tangles out of his corn-colored hair, and decided he looked and felt better than he had in a long time.

He left his room, determined to have a small chicha de jora.

His fellow hotel guests, finally out of hibernation, occupied several tables in the progressing darkness. Already, most of the canyon was lost in shadow, the Urumbamba no longer distinguishable in the gloom. The once-blue sky had faded to misty gray. The progressing twilight muted even the yellow of the Hiram Bingham Road. The greens, though, were still startlingly evident, only in deeper shades: thickly velvet on the hillsides.

Dan strolled the patio for the waiter—and found Sloane instead. And, vice versa. “Dan?” Immediately, Sloane was moving toward him.

Everyone else straightened up and took note, as if struck by the same dangerous lightning bolt. Had it been precognition, then, that had Dan provide Mark with the photo of Sloane for future (police?) reference? “Does this mean another goodbye kiss in the offing?” Dan wondered aloud.

“But this is marvelous!” Sloane said. “I was just thinking what a shame I had no one with whom to share the beauty of this Machu Picchu sunset.”

“You’re certainly waxing poetic.” Dan let Sloane lead him from the veranda and toward the ruins. “I thought you’d be miles away.”

“So did I.” A slight edge of chagrin crept into his otherwise cheerful voice. “There’s been another delay, but I’m waiting now for final word. How better to wait than with you? Whatever, by the way, are you still doing here?”

“My editor is expecting a well-researched travel piece out of here. Didn’t I tell you?”

“I don’t think that you did, as a matter of fact. And the rest of your group?”

“Gone.” Every potential chaperon had left Dan to the mercy of whatever the sexual-sparks consequences of this reunion.

“Even Mark, gone?”

“Even Mark, gone.” Why hadn’t he at least pretended that Mark still stood guard, somewhere, in the wings?

“Certainly, you never once mentioned staying over,” Sloane accused good-naturedly.

“I didn’t see the point; you were supposedly off into deep jungle.”

They walked nearer the small gate that provided access to the major pathway into the ruins. There were locals at the gate, but none stopped them. The man officially assigned to afternoon duty on the barricade merely let them stroll on through, only nodding a greeting.

They passed the rest station, a small and once-ruined building. During tourist hours, all the adjoining benches were filled because of the excellent views of terraced ruins.

A lacy wisp of mist clung to the top of Huayna Picchu, whipped away by a breeze up from the canyon.

Sloane stopped, pointed skyward. “Condors!” Large-winged birds glided late-afternoon updrafts. “The typical tourist leaves too early to see them.”

“Are they as big as they look?”

"Many have wingspans of ten feet or more. Really just glorified vultures, they’re known to eat so much at one sitting that they can’t even fly until their meal is partially digested.” Sloane’s voice was low and pleasant; Dan hung on every word as Sloane next pointed toward the summit of Huayna Picchu. “See the terraces way up there?” There were small parallel lines high up on the face of the steep mountain. “The Incas farmed even those hard to reach spaces, terraced as a means of avoiding erosion. Imagine hauling fertile soil in baskets, up from the valley, the summit soil not nearly rich enough for viable crops.” Sloane’s knowledge was the result of genuine interest. “Machu Picchu was built on a route connecting the torrid regions of the Antis Indians, after whom the Andes were named, to Cuzco. It was only one of several outposts built, many believe, as a last-ditch attempt to save the fading empire from the advancing Spaniards. To the north, there are other latter-day cities of importance: Vitcos, and the legendary Vilcabamba Grande.”

They paused at yet another vantage point that gave exceptional vistas of the multiple layers of the city, thousands of narrow stairs connecting one level to another.

“The main temple is down there.” Sloane again pointed. “And over there, the sacred square, the temple of the three windows—and the Intihuatana, or ‘stone to which the sun was tied,’ carved from a single block and only one of a very few left intact; most of the others were pulled down and broken up by Spanish missionaries who denounced them as monuments to a pagan deity.”

“Why didn’t you become an archaeologist? It’s obvious that you’re keen on the subject.”

“A long and complicated story.”

“I seem to have plenty of time at the moment.”

“I’m not really sure the story bears repeating.”

Dan didn’t press but remained curious. The best way to get information wasn’t always by rushing in and pushing; yet, it wasn’t in his reporter capacity that he wanted to know.

The path intersected a stairway, and they sat down on one of the steps. It was quiet and growing darker, the mountains acquiring a faint nimbus, the valleys completely vanished in shadows and mist.

“In the long run, I think, I’m infinitely better suited to my present profession than I ever would have been to archaeology,” Sloane decided.

“You’re not retired, then, like George?”

“Lord, no!”

“So, what do you do for a living, when not chasing after airplane wreckage in the wilderness?”

“I grow coffee beans, mainly.”

“Coffee? Really?”

“Does that surprise you?”

“A little.”

“Why? Whatever did you think I did for a living?”

“Professional criminal?” Dan joked; Sloane laughed. “I guess, I assumed you were somehow connected with aviation, since your father and brother were involved in that field.”

“My father was one of those men always looking for the pot of gold at the end of some rainbow.” Sloane picked up a small stone and tossed it. It bounced three times on the steps and then skipped out over the edge of the precipice into silence. “Too young for World Wars I and II, but not for the Korean Conflict that sucked him in, Dad ended up with the skills to fly an airplane, a game leg, a few thousand dollars by way of separation pay, and an acute awareness of more to the world than just the cattle ranches of Montana.”

“Coffee beans grow in the US?”

“Mine grow in South America. My father took out Brazilian citizenship.”

“Your mother?”

“She came with him but didn’t last long in the places my father dragged her. I used to blame him. Although Jack—usually when drunk —always insisted it hadn’t been our old man’s fault that mom wouldn’t let him leave her behind. ‘Sloane,’ Jack would say, ‘given the choice of dying with Dad or without him, Mom would always take the dying with him any day.’ So, they both ended up dead in Brazil.”

“I’m sorry.”

“We all die—someday.”

“I’m still not sure how you ended up in the coffee business,” Dan diplomatically shifted the conversation.

Around them, the ruins grew more ghostly beautiful as the evening faded into even more complete and misty darkness.

“My father got his hands on a secondhand airplane and began flying supplies into the Brazilian interior. On the way out, he would fly whatever cargo was available: men who had given up and were heading home, men who had made it big and were heading home, letters for home—”

“Indian artifacts?” Dan added, Sloane’s voice having trailed off into silence. Above them, the condors, no longer seen, still circled.

“Yes, Indian artifacts.”

“And coffee?”

“Not coffee.” Sloane laughed. “Come on, we’d better get back before we trip over something dangerous in the dark.”

Dan was disappointed by the continuing mystery of when the Hendriks got into coffee. He hoped for more insight into Sloane’s past, because there was something undeniably enjoyable about receiving each new clue, anticipating it as the vital key to unlock the total mystery of the dangerous fascination Sloane held out for Dan.

When they came to their feet, Sloane turned purposely in Dan’s direction, his hands slipping expertly between Dan’s slim waist and arms. His guiding fingers continued around to Dan’s back, anchored in place, and exerted pressure to draw Dan’s muscular body in tightly against the compact physique concealed by Sloane’s clothes. “You fucking sexy sonofabitch!”

The whole gamut of conflicting emotions that plagued Dan, since first meeting Sloane, came barreling back, intensified by the kiss Sloane now demanded and which Dan willingly surrendered to him. The moment was dangerously ripe for the natural progression denied them after their kiss in the train car where risks, of interruption and discovery, were far more prevalent than here. Nothing existed, on this mountaintop, to provide checks and balances for passion already threatening to run unchecked.

Sloane’s hands were no longer on Dan’s back; Dan’s hips pulled back slightly to give Sloane’s fingers room to unfasten Dan’s belt buckle, undo the top button, and slide open the teeth of crotch-concealing zipper. Simultaneously, Dan unfastened several of Sloane’s shirt buttons to explore the sensuous terrain of scalloped belly, deeply-etched pectoral cleavage, hard and pimpled nipples.

“Oh, sweet Jesus, but I want you!” Sloane’s large hand slid Dan’s belly, fingertips beneath underpants waistband.

Dan’s cock was hard, hot, stiff, and waiting Sloane’s eager grasp that found it and took hold. Only the sudden, and unexpected—“Well, would you look at you two!”—was capable of provoking the reflexive-action that unfolded Sloane’s fist and accounted for its hasty abandonment of its hard-won prize.

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Più tardi, sorprendentemente rinfrescato dopo un breve sonnellino, si spruzzò la faccia con dell’acqua fredda, indossò degli abiti puliti, tolse con il pettine i nodi dai suoi ricci capelli ricci color del grano, e decise che sembrava e si sentiva meglio di quanto era stato da molto tempo.

Lasciò la sua stanza, determinato ad avere una piccola chicha de jora.

I suoi compagni d’albergo, finalmente fuori dal loro stato d’ibernazione, occupavano diversi tavoli nell’oscurità che aumentava. Già la maggior parte del canyon era perso nelle ombre, la Urumbamba non più distinguibile nell’oscurità. Il cielo prima azzurro era sbiadito in un nebbioso grigio. L’incombente crepuscolo faceva scomparire anche il giallo della Hiram Bingham Road. I verdi, tuttavia, erano ancora sorprendentemente evidenti, solo in ombre più intense: velluto pesante sul fianco delle colline.

Dan bighellonò nel patio alla ricerca del cameriere – e trovò invece Sloane. E viceversa. “Dan?” Immediatamente Sloane si stava dirigendo verso di lui.

Tutti intorno a loro rizzarono la testa e presero nota, come colpiti dallo stesso pericoloso fulmine accecante. Che fosse stata precognizione, allora, che aveva fatto in modo che Dan fornisse a Mark una foto di Sloane per una futura referenza (della polizia?)? “Questo significa un altro bacio d’addio in vista?” ipotizzò Dan a voce alta.

“Ma è meraviglioso!” disse Sloane. “Stavo proprio pensando che era un peccato non avere nessuno con cui condividere la bellezza di questo tramonto sul Machu Picchu”.
“Sei certamente un poeta sdolcinato”. Dan lasciò che Sloane lo conducesse dalla veranda verso le rovine. “Pensavo che fossi miglia lontano”.

“Anch’io”. Un leggero tocco di dispiacere incrinò la sua voce altrimenti vivace. “C’è stato un altro ritardo, ma ora sto aspettando la parola finale. Cosa c’è di meglio se non aspettare con te? In ogni modo, cosa ci stai facendo ancora qui?”

“Il mio editore si aspetta un resoconto di viaggio dettagliato da qui. Non te l’ho detto?”

“Non penso che tu lo abbia fatto, a dire il vero. E il resto del tuo gruppo?”

“Andati”. Ogni potenziale accompagnatore aveva lasciato Dan alla mercé di qualsiasi scintilla sessuale derivante da questo rincontro.

“Anche Mark se ne è andato?”

“Anche Mark, andato”. Perché non aveva finto che almeno Mark fosse ancora di guardia, da qualche parte, tra le quinte?

“Sono certo, non hai mai accennato al fatto che saresti rimasto”, lo accusò Sloane con tono leggero.

“Non ne vedevo il motivo; era previsto che tu fossi nel profondo della giungla”.

Si avvicinarono al piccolo cancello che forniva l’accesso al tracciato principale tra le rovine. C’era della gente del posto al cancello, ma nessuno li fermò. L’uomo incaricato del turno pomeridiano alla barricata li lasciò semplicemente passare, facendo solo un cenno di saluto.

Passarono la stazione di sosta, un edificio piccolo e una volta in rovina. Durante gli orari di visita, tutte le panche adiacenti erano piene a causa delle stupende vedute sui terrazzamenti delle rovine.

Un leggero velo di nebbia copriva la cima del Huayna Picchu, spazzato via dalla brezza che arrivava dal canyon.

Sloane si fermò, indicando il cielo. “Condor!” Uccelli dalle larghe ali volavano nella corrente del tardo pomeriggio. “I normali turisti se ne vanno troppo presto per vederli”.

“Sono così grandi come sembrano?”

“Molti hanno un’apertura alare di dieci piedi e anche più. In realtà sono solo avvoltoi più grandi, si dice che mangino così tanto in una volta sola che non sono neanche capaci di volare fino a che il loro pasto non è parzialmente digerito”. La voce di Sloane era bassa e piacevole; Dan pendeva dalle sue labbra per ogni parola mentre Sloane indicava di seguito la cima del Huayna Picchu. “Vedi i terrazzamenti là in cima?” C’erano delle piccole linee parallele in alto sul fianco della ripida montagna. “Gli Incas coltivavano anche quei terreni così difficili da raggiungere, dotati di terrazza per evitarne l’erosione. Immagina trascinarsi sulle spalle terreno fertile nei canestri, su dalla valle, il terreno della cima neanche lontanamente sufficientemente fertile per un raccolto profittevole”. La conoscenza di Sloane era il risultato di un interesse sincero. “Machu Picchu fu costruita sulla strada che collegava le regioni torride delle Antis Indians, da cui prendono il nome le Ande, a Cuzco. Molti credono che sia solo uno dei molti avamposti costruiti, come un ultimo tentativo di salvare l’impero che stava scomparendo con l’avanzata degli Spagnoli. A nord, ci sono altre città importanti più recenti: Vitcos, e la leggendaria Vilcabamba Grande”.

Si fermarono in un altro punto strategico che forniva una vista eccezionale dei diversi strati della città, migliaia di strette scale che collegavano un livello all’altro.

“Il tempio principale è lì in basso”. Sloane indicò ancora. “E lì sopra, la piazza sacra, il tempio delle tre finestre – e la Intihuatana, o “pietra cui era legato il sole”, scolpita da un singolo blocco e una delle poche lasciate intatte; molte delle altre furono abbattute e distrutte dai missionari spagnoli che le accusavano d’essere monumenti ad un dio pagano”.

“Perché non sei diventato un archeologo? E’ ovvio che sei un appassionato della materia”.

“Una storia lunga e complicata”.

“Sembri avere molto tempo in questo momento”.

“Non sono davvero sicuro che la storia possa essere ripetuta”.

Dan non fece altre pressioni ma rimase curioso. Il modo migliore per ottenere informazioni non sempre era affrettarsi e spingere; tuttavia, non era per la sua abilità di giornalista che voleva sapere.

Il percorso incrociava una scala, e si sedettero su uno degli scalini. Era calmo e l’oscurità stava aumentando, le montagne diventavano una debole aureola, le valli completamente svanite nelle ombre e nella nebbia.

“Alla lunga, penso, di essere decisamente più adatto alla mia attuale professione di quanto mai sarei stato come archeologo”, decise Sloane.

“Quindi non sei in pensione, come George?”

“Mio Dio, no!”

“Così, cosa fai per vivere, quando non dai la caccia ad aeroplani precipitati nella foresta selvaggia?”

“Coltivo caffè, principalmente”.

“Caffè? Davvero?”

“Ti sorprende?”

“Un poco”.

“Perché? Cosa pensavi che facessi per vivere?”

“Una qualche professione criminale?” lo prese in giro Dan; Sloane rise “Pensavo, ho dato per scontato che tu fossi in qualche modo connesso con l’aviazione, poiché tuo padre e tuo fratello erano coinvolti in quel campo”.

“Mio padre era uno di quegli uomini sempre alla ricerca della pentola d’oro alla fine di qualche arcobaleno”. Sloane raccolse un sassolino e lo gettò. Rimbalzò tre volte e poi saltò oltre il limite del precipizio in silenzio. “Troppo giovane per la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, ma non per il Conflitto Coreano che lo risucchiò, Papà finì con la capacità di far volare un aeroplano, con una gamba zoppicante, e con qualche migliaia di dollari come liquidazione, e una acuta consapevolezza che c’era di più al mondo che alcuni allevamenti di mucche nel Montana”.

“Il caffè cresce negli Stati Uniti?”

“Il mio cresce in Sud America. Mio padre prese la cittadinanza brasiliana”.

“Tua madre?”

“Lo seguì ma non resistette a lungo nei posti in qui la trascinava mio padre. Ero solito incolparlo di questo. Sebbene Jack – di solito quando era ubriaco – ha sempre sostenuto che non era colpa del nostro vecchio se la mamma non gli permetteva di essere lasciata indietro. “Sloane”, diceva Jack, “dandole la scelta di morire con Papà o senza di lui, Mamma avrebbe sempre scelto di morire con lui tutti i giorni”. Così, entrambi finirono per morire in Brasile”.

“Mi spiace”.

“Tutti moriamo – prima o poi”.

“Non sono ancora del tutto sicuro di come tu sia finito nel commercio del caffè”, Dan in modo diplomatico cambiò argomento.

Intorno a loro, le rovine diventavano spettralmente sempre più belle mentre la sera svaniva in una oscurità ancora più totale e nebbiosa.

“Mio padre mise le mani su un aeroplano di seconda mano e incominciò a trasportare rifornimenti nell’entroterra brasiliano. Sulla rotta di ritorno, trasportava qualsiasi carico disponibile: uomini che avevano rinunciato e stavano tornando a casa, uomini che avevano sfondato e stavano tornando a casa, lettere indirizzate a casa…”

“Manufatti indiani?” aggiunse Dan, la voce di Sloane si affievolì fino al silenzio. Sopra di loro, i condor, non più visibili, continuavano a volare in circolo.

“Si, manufatti indiani”.

“E caffè?”

“No, non caffè”. Rise Sloane. “Dai andiamo, è meglio che torniamo indietro prima che ci imbattiamo in qualcosa di pericoloso nel buio”.

Dan era deluso dal continuo mistero di come gli Hendricks erano finiti a commerciare caffè. Aveva sperato di avere più dettagli del passato di Sloane, perché c’era qualcosa di innegabilmente piacevole nel ricevere ogni nuovo indizio, anticipandolo come la chiave decisiva per svelare il mistero totale del fascino pericoloso che Sloane aveva per Dan.
Quando furono in piedi, Sloane si voltò appositamente verso Dan, le sue mani scivolarono sapientemente tra la vita snella di Dan e le sue braccia. Le sue dita proseguirono verso il dietro di Dan, fermandosi lì, ed esercitando una pressione per attirare il corpo muscoloso di Dan strettamente contro il fisico compatto nascosto dagli abiti di Sloane. “Tu, bastardo maledettamente sexy!”

L’intera gamma d’emozioni contrastanti che tormentavano Dan, sin dal suo primo incontro con Sloane, gli si riversarono addosso, intensificate dal bacio che ora Sloane pretendeva e che Dan con tutta la buona volontà gli stava concedendo. Il momento era pericolosamente maturo a causa della evoluzione naturale che era stata loro negata dopo il loro bacio nel vagone del treno dove i rischi, di essere interrotti e scoperti, erano molto più evidenti che in questo posto. Non esisteva nient’altro, sulla cima di questa montagna, per fornire controllo e sostegno ad una passione che già minacciava di correre senza briglia.

Le mani di Sloane non erano più sul didietro di Dan; i fianchi di Dan si ritirarono leggermente per dare spazio alle dita di Sloane per sciogliere la fibbia della cintura di Dan, slacciare il primo bottone, e aprire i denti della cerniera che nascondeva il suo pene. Contemporaneamente, Dan slacciò diversi bottoni della camicia di Sloane per esplorare la sensuale distesa di uno stomaco scolpito, pettorali profondamente incisi, capezzoli duri e a punta.

“Oh, buon Gesù, quanto ti voglio!” l’ampia mano di Sloane scivolò sullo stomaco di Dan, le punta delle dita sotto la cintura della biancheria intima.

Il pene di Dan era rigido, caldo, duro, e in attesa della appassionata presa di Sloane che lo trovò e lo prese in mano. Solo l’improvviso, e inaspettato – “Bene, guardate voi due!” – fu capace di provocare la reazione riflessiva che fece aprire le dita di Sloane e causò il suo frettoloso abbandono del premio così duramente conquistato.

Blurb of FROM THIS BELOVED HOUR (L'INGANNO DEL DESTINO): Do you can be still believed in the predestination? Oh, sure! At least therefore Jemmy Mowry thinks, a cultured American picked archeologist landed in Egypt in order to work to the dig of a Pharaoh's tomb.

Between the collaborators there is in fact Peter Donas, grandson of that Frederic who sixty year before had lived a tragic love story with Geraldine, the grandmother of Jenny. She, that soon feels to be born an attraction, corresponded, for the seductive colleague, is convinced to not escape to the law of the fate: also their relationship will end badly.

But as the mythical phoenix reborn from own ashes and the black gold gushes from the sands of the desert, therefore to the shadow of the pyramids it can bloom, and living, the delicate flower of love…

Si può credere ancora nella predestinazione? Oh, certo! Almeno così la pensa Jemmy Mowry, una colta archeologa americana approdata in Egitto per lavorare agli scavi della tomba di un faraone.

Tra i collaboratori c'è infatti Peter Donas, nipote di quel Frederic che sessant'anni prima aveva vissuto una tragica storia d'amore con Geraldine, la nonna di Jenny. Lei, che subito sente nascere un'attrazione, corrisposta, per il seducente collega, è convinta di non sfuggire alla legge del destino: anche il loro rapporto finirà male.

Ma come la mitica fenice risorge dalle proprie ceneri e l'oro nero zampilla dalle sabbie del deserto, così all'ombra delle piramidi può sbocciare, e vivere, il delicato fiore dell'amore...

Excerpt from FROM THIS BELOVED HOUR
William Maltese (writing as Willa Lambert)
ISBN: 0373700237
Harlequin (SuperRomance #23)
© 1982

“THE BENNU,” he said, referring to the hieroglyph of a heron with two long feathers growing from the back of its head. The man had quietly joined Jenny in the small alcove on the first floor of the Egyptian Museum in Cairo. She was facing a sandstone relief that had been saved from the area around Abu Simbel when the Nile had been backed up behind the multimillion-dollar Saad al-Ali—the Aswân High Dam.

She was surprised by his company. Although the museum was kitty-corner from the Nile Hilton, and therefore quite accessible, most tourists usually kept to the more impressive Tutankhamen exhibit located on the second floor. Jenny was saving that until last, rather like saving a fine dessert to be savored after a thoroughly enjoyable and deliciously filling meal. She assumed the man was a tourist—he spoke perfect English, albeit with a thoroughly enchanting accent that was more British than American. She should have been forewarned by the fact that he was able to identify a key figure in hieroglyphic script. Jenny knew very few people, besides her colleagues in the archaeological profession, who were so thoroughly informed. “Yes,” she said, turning to him, quite prepared to further define the heron character so he would know he wasn’t the only one with a modicum of knowledge on Egyptology. Despite being handicapped by the warehouse dimness for which the Egyptian Museum was notorious, Jenny had recognized him immediately.

“It really isn’t a heron at all, you know,” he said, failing to notice in the poor lighting how the blood had drained from her face. “It represents the phoenix—that legendary bird that lived for five hundred years before converting its nest into a funeral pyre and cremating itself in the searing flames.” He held up his hand as if to prevent an interruption. In truth, Jenny hadn’t found her voice yet. It was caught somewhere at the base of her throat, where it had become lodged when she first realized who he was. “but there is a happy ending,” he continued, “for it emerged a new from its own ashes to live for another five hundred years—give or take a hundred years, of course.”

He smiled—a very attractive smile. If he’d been smiling from the beginning, she might not have recognized him, because his pictures always showed him as very somber. Oh, yes, she had his picture—several of them, in fact, culled from archaeological journals and magazines. She had faithfully filed them in an album begun in 1922. Not that he or Jenny had been alive in 1922. No, the album’s first pictures hadn’t been of him but of his grandfather, followed by his father, then by him.

“I do believe you have a place in the United States called Phoenix, do you not?” he asked. Jenny got a strange feeling at the roots of her hair, feeling that shivered its way down to the soles of her feet. She had assumed he had recognized her, too. However, if that were the case, she couldn’t believe he could still be blasé about it. “It’s in Arizona, isn’t it?” he asked.

“Arizona?” Jenny said, sounding very much like a parrot and feeling silly because of it.

“Phoenix, Arizona,” he elucidated. “That is the place, isn’t it?”

“Oh, yes,” she admitted, trying desperately to get her thoughts back into some semblance of order. If he could carry this through with such aplomb, Jenny was determined to match him. Her whole problem was that she hadn’t expected this ordeal quite yet. She had arrived in Egypt early just so she would have time to get herself mentally prepared for their scheduled meeting in Hierakonpolis. Oh, she had told herself she needed the extra days so she could take the leisurely boat trip up the Nile to the excavation site, but the real reason had been her need for a little time here in Egypt to prepare.

“It symbolized the morning sun rising out of the glow of dawn,” he said. For a moment Jenny didn’t know what he was talking about, and then she realized he was still giving her a lesson on the heron hieroglyph. She found his patronizing attitude just a little insulting. He must have known she was as well acquainted with what he was saying as he was. “Hence it was conceived as the bird of the sacred sun-god, Re,” he continued. If he sensed her growing chagrin, he certainly didn’t let on. “It represented the new sun of today emerging from the body of the old sun of yesterday—a manifestation of Osiris, the symbol of resurrection and light.” He finished off with a quote from Job that, some scholars argued, indicated that the phoenix legend had passed over into Judeo-Christian teachings: “‘Then I said, I shall die in my nest, and I shall multiply my days as the sand.’”

“‘Who forgiveth all thine iniquities, who healeth all thy diseases, who satisfieth thy mouth with good things, so that the youth is renewed like the eagles,’” Jenny shot back, glad her voice had finally lost its confused squeak. Her quotation had come from Psalms. While neither reference probably had anything whatsoever to do with the phoenix, although that mythical bird had always been represented as an eagle in Greco-Roman art, she had at least proved she could match him obscurity for obscurity.

“I say, that’s very good!” he complimented her, seeming genuinely appreciative. Jenny really couldn’t believe he hadn’t expected her to be as knowledgeable on the subject as he was. She might not have got her education at Oxford, but she had all the accreditation in their mutually shared field to match him diploma for diploma. There were some people who might even have said, after her work at the dig at Avaris on the eastern side of the Nile delta, that she was far more qualified to work on this excavation at Hierakonpolis than he was. “My name is Peter, he told her. “Peter Donas.”

She automatically held out her hand. She hadn’t wanted to. At least that’s what she told herself. Hers had merely been a natural reflex born of introduction after introduction at lectures, college teas, or while meeting the never ending stream of academicians who moved in, out of and around Jenny’s circle. She certainly wanted her hand back the moment he took it, finding he held it far longer than was prescribed by good etiquette. She would have pulled it away by force, except she found that the power in his calloused fingers had somehow drained her of all her strength.

“Yours?” he asked, making her wonder whether he was referring to her hand, which he wouldn’t release. Her fingers seemed insignificant within the cupping of his powerfully larger ones.

“Yours?” she questioned, unsure just what he was asking. She continued to be alittle muddled, this whole scenario somehow unnerving her. She didn’t know why their meeting couldn’t have taken place later, as scheduled, instead of now. She had so hoped to be calm, cool and collected.

“I’ve already told you my name,” he said, clearing up the problem and delivering a delighted laugh. “Peter Donas, remember? What I was hoping, of course, was that you might tell me yours. I know you’re American because I overheard you ask the guard back there a question about the present location of Ramses II’s mumy an I detected your accent. So, since we both speak a common language and are both far from home, I was hoping you might not take too unkindly to some company.”

She did find the strength to pull back her hand. What’s more, she managed with a force that surprised him. She had to admit, however, that he was exceedingly quick in his recovery.

“I assure you,” he said with an accompanying laugh of apparent pleasure, “my intentions are purely admirable. I have nothing more sinister in mind than a mutually shared wander through these murky halls and then, perhaps, a bit of tea back at the hotel. By chance are you staying at the Hilton, too?” Jenny was furious. Whereas she had blanched stark white upon first seeing him standing beside her, she was no a dark pink. He stepped back just a bit, as if to verify that he wasn’t about to leap at her. “Really, I’m all innocence,” he assured her. “Cross my heart; hope to die All I’m suggesting is walk, talk and tea.”

Apparently he thought she was concerned that he might try to make a pass at her there in the alcove of the museum, thought she was upset because he appeared to be some kind of lothario out to sweep a poor young—twenty-nine wasn’t that old—American tourist off her feet. Yet that was not what was bothering her. He hadn’t recognized her; that was the trouble. She had known him right off, but he still hadn’t recognized her. Which meant he’d thought she hadn’t known the bennu hieroglyph from that of a ba—a depiction of the Egyptian soul by a bird’s body with a human head. No wonder he’d been so surprised when she’d shot back her biblical text about youth renewing itself like an eagle. It had been bad enough when he’d confronted her, engaging in harmless small talk. To find he’d been assuming from the start that she was a Miss Everyday Tourist was frankly a blow to her ego—professional and otherwise. He should have known. He should have recognized her. She was Jenny Mowry. His grandfather had jilted her grandmother. Jenny and this man might well have been brother and sister had Geraldine Fowler and Frederic Donas married.

“Jenny Mowry!” she wanted to scream at him. “Remember my treatise on Crete? I said that Crete was all that remained of Atlantis after it had been destroyed by the volcano on Thira, and you came out publicly and said my theory, while not a new one, was still as much poppycock as it had always been.” What audacity to call a person’s work and research poppycock when he couldn’t even recognize her as he stood right next to her! The lighting was bad. The lighting was very bad. But the lighting was definitely not that bad. “You’ll have to excuse me; I have to go,” she said, hearing her voice sound with strained breathlessness. She wondered why she couldn’t make her legs follow through with her intentions, put one foot in front of the other to move her right out of there. Possibly she thought that he would yet come to see who she was.

“Let’s talk over tea, then” he said. “You’re heading back to the hotel now, you say?”

“No,” she answered. “I didn’t say that, as a matter of fact.”

“Oh,” he said, seemingly chastised and a bit at a loss.

She should have moved right then and there, swept right by him out through the large vestibule and into the hot dusty Cairo street. Then, when they met again in a few days in Hierakonpolis, he would realize his faux pas. “Tea?” she said instead.

“Tea?” he echoed.

“You did offer to buy me tea, didn’t you?” she asked, as if he were the awkward one. She had better grasp of the situation now and felt more in control. “Or did you?”

"Yes, of course,” he affirmed. “I did indeed offer you tea. I was, however, somehow under the impression that you had said no.”

“You’ve no doubt heard it’s a lady’s prerogative to change her mind?” Jenny said. “Well, it might be a hackneyed and unfair truism, but I have changed my mind. Actually, I’d love that cup of tea.” What she wanted to do was get them out into the full light of day. She wanted that bright Egyptian sun to shine down on her like a spotlight, pointing out her honey-colored hair that haloed her oval face like a lion’s mane; pointing out her dark brown eyes, her pert nose with its five freckles, her sensuous but not too sensuous mouth, her dimple, her skin that unlike that of so many blondes tanned to even perfection. Then she would see that flicker of recognition sparking at last in his golden yes. Yes golden eyes—dark and rich gold. Jenny had seen such eyes only on certain birds of prey. No, that wasn’t quite true. The eyes of the birds had been piercing, decidedly dangerous. Peter’s eyes were a warm gold that pulled her toward them, seduced her into an awareness of them even more intensive than her awareness of the attractive squareness of his jaw and the dimple in his chin that would have made her want to reach up and touch it, had his eyes not kept drawing her back to them.

“Great!” he said. He took her upper arm, obviously thinking she would have trouble negotiating the corridors of the museum, when in fact she had got around quite nicely before he had appeared on the scene. If there was anyone who needed help in seeing in the inadequate lighting, it was he. She had certainly had enough light by which to see him. She didn’t pull away, though, having successfully fought down the impulse. After all, it was gentlemanly courtesy on his part, and Jenny, though she believed in women’s rights and wanted equal work opportunities, equal pay and equal recognition of her qualifications, still enjoyed having doors opened for her, hats tipped and gentlemen stand to greet her whenever she entered a room. She couldn’t very well jerk away from his hold without being unduly polite, but his hand was doing something to her it shouldn’t have been doing. Not that she could really put her finger on what was bothering her, because she couldn’t. He wasn’t holding her too tightly. He wasn’t even moving his fingers. His hand was simply there, simply sending these funny little vibrations up her arm, into her throat and breasts, down…. She found consolation in knowing he would be taking his hand away soon enough once he realized just whom he had in tow.

Thank God, daylight! There it was right up ahead, framed by the massive open doors of the museum’s main entrance. It wouldn’t be long now. Just a few more steps. One, two, three…..

“Ohhhhhh!” she groaned, not believing she had tripped. There hadn’t seemed anything on which to trip. Yet there she was, stumbling in the dimness of the Egyptian Museum, as if she had to give Peter Donas some valid excuse for having taken the liberty of putting his hand on her arm in the first place.

“Gotcha!” he announced triumphantly. He had her all right, like an octopus—all arms. Such big arms they were, too. Such strong arms. And how hard his chest felt beneath his shirt as her uncertain steps brought her into direct contact with him when he turned to stop her fall.

"I’m fine,” she said. “Really, I am fine.” She was trying very hard not to sound as if she had just tripped over the edge of a precipice and was still on her way down.

“They’re supposed to be remodeling this place soon,” he told her, his arms no longer wrapping her, his chest no longer hard against her breast. He was back to just his hand on her arm. “They’re scheduled to sue some of the revenues from the Tut exhibit that went on world tour.”

They exited into the sunlight, and to Jenny’s increased chagrin he still didn’t recognize her. In any case, he didn’t give any indication he did. “The museum was dark, but at least it was cool,” was all he said when they paused on the porch outside the large ocher-colored building. “It must be over a hundred out here.” She was somewhat mollified by the fact that he was obviously having trouble seeing anything at the moment. One hand shielded his golden eyes, the other still held her arm, as if he expected her to stumble down the steps leading to the courtyard. She rationalized that where the museum had been too dark, the outside was too bright. She was squinting, too, and he could hardly be expected to recognize her with her face all screwed up. So if he couldn’t recognize her in the dark of the museum and he couldn’t recognize her in the light of the Cairo sunshine the next step was to go into the better lighting of the hotel. Although she continued to have no problems seeing him.

He was bigger than she had thought he would be. She was five foot seven, and he towered more than five inches above that, making him taller than six feet. He looked younger than his pictures revealed-d-probably because he always seemed to sober in the photographs. Editors of scientific journals had a penchant for somberness, thereby instigating rumors that no one in the scientific community ever had any fun. This simply wasn’t true.

Peter remained intent upon getting Jenny across a street congested with traffic that ranged from an expensive Mercedes to a cluttered donkey cart. The herd of goats that suddenly came barreling round the corner added to the mess. Jenny could never get used to seeing livestock parading through the middle of busy streets in a metropolis of close to ten million people. Peter’s grip tightened on her arm, warning her that she had better stop or risk getting run over by a vintage-model American car that would have been relegated to the wrecking yard in the United States. Not only was it still running in Egypt, but it would probably continue to run for a good many years to come, held together by prayers and chicken wire.

Ahead loomed the Nile Hilton, a modern structure among a conglomeration of new building and old. Cairo was one more of those age-old cities trying to make the transition from past to present. What resulted was a hodgepodge of East meeting West and old meeting new, all of which left the visitor imagining he was caught up in a time flux that tossed him from medieval minarets one minute to glass-and-chrome discos the next.

Jenny glanced sideways, once again taking in Peter Donas in full sunlight. Damn, he was handsome, although that had nothing whatsoever to do with anything! He and she had been destined long before they’d been born to meet as enemies. That this meeting was progressing the way it was now was only because Peter didn’t realize who she was. And it was obvious he still didn’t know her when, sensing her eyes on him, he turned in her direction and smiled. Peter Donas smiling at Jenny Mowry was certainly something she had never expected to see. It was a decidedly pleasant smile, too, one that carved faint crinkle lines at the corners of his golden eyes. If his eyes didn’t relay any hint of danger, that didn’t mean Jenny was feeling safe. She was feeling anything but safe, although she wasn’t quite sure just why. She certainly didn’t feel fear of any physical harm. His hand on her arm, its slightly increased pressure telling her when it was all right to move once again, was actually reassuring.

“Safe at last!” he announced, guiding her up onto the sidewalk and toward the entrance to their hotel. Jenny almost laughed at his choice of words, coming as they did at the same moment as her thoughts of danger. She realized that the danger she feared was a threat to her emotional, rather than her physical, well-being. In fact, she had probably seen that from the moment she had first agreed to come to Egypt knowing Peter Donas would be here. Which was why she had wanted a week on Egyptian soil to prepare mentally for their meeting. But he had managed to put her into the arena without allowing her time to psyche herself up. She was vulnerable, made more so by the fact that she had always assumed the day would come when they would meet, recognize each other and feel the tragedy that linked them. Well, the day was here, and they had met, and she had recognized him, feeling the invisible links that bound them. But he hadn’t recognized her. He had obviously felt nothing—which left Jenny questioning whether she hadn’t been living an illusion all of this time. Maybe there was no such thing as predestination. Maybe the affinity she felt for her dead grandmother had nothing whatsoever to do with the here and now, only with the fanciful imaginings of a child who, once standing in front of a portrait of Geraldine Fowler, had been told that her face and the one in the painting were mirror images. Geraldine, dead at thirty-four in Egypt, dead like so many others who had been there when the Earl of Carnarvon’s workmen, under the direction of Howard Carter, had unearthed at Thebes the stairway leading to the tomb of King Tutankhamen. Dead not because of the ancient curse on the tomb, but because the man she had loved-d-not her husband—had married another woman merely for a dowry.

Peter’s grandfather hadn’t looked any more dangerous than Peter looked now. Jenny knew because she had pictures of Frederic Donas. He had looked young, but he had been young—ten years Geraldine’s junior. He had been handsome, although not as handsome as Peter. He had told Geraldine he loved her, and then he had gone off to marry Peter’s grandmother in England. It was more than just a coincidence that the granddaughter of Geraldine Fowler and the grandson of Federic Donas were now in Egypt, both heading for an archaeological dig only a few miles upstream from the scene of that tragedy long ago.

Peter stopped her at the door of the hotel. They both stepped back as a group of German tourists came sweeping by. They were probably off to visit the teasures of Tutankhamen, which Jenny suddenly realized, she had left without taking in. Oh, she had seen the smaller pieces of the collection—thos that had made the rounds of the world capitals—but not the bigger items kept on display at the Cairo Museum, among them the sarcophagi that, fitting one within the other, had held the boy-king, his mummy wrapped in wings of gold cloisonné. Twice previously Jenny had come to Egypt and not viewed the legendary treasures. There had been no time during the first trip. She had flown into visit her father at the dig at Saïs and had flown out to Crete the very next day. There had been more time when she had helped excavate sections of Avaris, but the museum had been closed the one day she had made it to Cairo, interrupting a busy work schedule specifically to see the treasures. She had never got back until now, and now she had missed them because Peter Donas had invited her to tea. She couldn’t believe it and still wasn’t really sure how it had all come about.

The tour group passed; Jenny and Peter entered the hotel. Immediately she was possessed by that same feeling she experienced every time she entered a Hilton—the feeling that undoubtedly had something to do with her father once having said, “Blindfold me, sit me down in any Hilton Hotel in the world, take off my blindfold, and I’ll give you odds I can’t tell you what country I’m in, let alone what city.” He might have found the locale easier to identify in this Hilton, however, wince there was a definite sense of the Middle East about the men standing around in their long galabias, wearing headdresses and sandals.

Peter guided her into a small area just off the lobby where she had a good view of the foot traffic. He removed his hand from her arm, and surprisingly she wished he hadn’t. She sat down, and he took the chair across from her. Separating them was a small brass coffee table typical of Egypt’s internationally renowned brass work. He motioned to a waiter in an off-gold jacket and ordered tea. “Now it might be easier to carry on a conversation if I did know your name,” he said, turning his attention fully to Jenny. He sat back in his chair, crossing his legs so that his left ankle angled across his right knee. He was wearing black riding boots, black slacks, and a short-sleeved shirt. He had black hair on his forearms and on the backs of his large hands, but Jenny couldn’t see evidence of any on the V of tanned chest visible at his open collar. She found herself speculating on whether he had much hair on his chest or whether there was only a smooth expanse of bare skin stretched tightly over his well-defined muscles. No doubt about there being muscles. She could see evidence of them despite his shirt… something about the way the material rested against him. “Or shall I call you Miss X?” he said. “Mrs. X?” He suggested the alternative playfully.

Jenny was brought up short by the teasing tone of his voice. “Mrs. X?” he had asked, and she couldn’t help wondering if it would have mattered to him if she had been a married woman. It had certainly not mattered to his grandfather that Geraldine Fowler had been married, or that she’d had two children, or that she’d left her husband and children in an effort to find happiness with him, only to discover too late that he had made plans to marry another woman for money. The sooner Jenny got this charade over, the better it would be. Peter hadn’t recognized her in the museum, outside, or here. He didn’t have a clue. “Jenny,” she said, giving him that clue. “My name is Jenny.”

“Very well, then,” he said, and she could tell by the way he said it that her name wasn’t ringing any bells. “What brings Jenny to Egypt? A holiday?”

She was Jenny Mowry, come to assist him in the excavation of the dig at Hierakonpolis. She was the granddaughter of the Geraldine Fowler who had been jilted by his grandfather. Surely he had heard the story. Unless a young man wasn’t as easily taken in as a young girl by the romanticism of unrequited love or by the pathos of a woman who, after having successfully begged her husband into taking her back for the sake of thief children, simply lay down one morning at Thebes and died of a broken heart. Anyway, the doctor present hadn’t been able to offer a more suitable diagnosis.

The tea arrived and Peter poured, asking if she wanted hers “white,” adding milk when she nodded. She noticed that he took his “black.” She also noticed that he managed the handling of the delicate tea service without appearing awkward, despite the largeness of his hands. There was, in fact, a certain magnificent grace in the way he lifted his cup to his mouth, sipped, made an expression of genuine satisfaction at the taste, and eyed her over the rim of his cup. In any case she thought he was eyeing her over the rim of his cup. This was why she was so pleasantly shocked when he whispered. “Absolutely beautiful!”

“What?” she asked. It seemed a rather inadequate response, but it was all she could come up with at the moment.

It was when his eyes finally did focus directly on her that Jenny realized his compliment hadn’t been directed at her but at something or someone directly behind her. “Will you please excuse me just a brief moment,” he said, rising to his feet.

She turned to follow his retreating figure, immediately spotting what had caught his eye. Off to one side of the lobby, the object of inquisitive glances even from the members of the local population was an Arab wearing a heavy leather glove that covered his left hand and much of his forearm. A falcon was perched firmly on the man’s clenched fist. There were strips of leather attached to the bird’s legs, restraining it on the glove. The falcon was hooded with a colorful leather cap that hid its entire head except for its sharp beak. The hood was bright orange, with a plume of cock’s hackle feathers garnished with colored wool and bound tightly together with fine brass wire affixed to the crown. Jenny watched Peter approach the man. She was more than a little piqued he had deserted her in favor of some hunting bird. She as also a little embarrassed she had thought his “Absolutely beautiful!” had been directed at her. How silly of her! She should have known better, because she certainly wasn’t beautiful. Oh, she had all of the right ingredients, but somehow they just didn’t come together in a way she considered beautiful. Attractive, yes. Maybe even pretty. But not beautiful. She was beset by conflicting emotions: jealousy that the bird had elicited a compliment she could not; gratitude that Peter’s comment hadn’t been directed at her so that she was saved the embarrassment of telling him his flattery would get him nowhere.

She sipped her tea, more and more indignant at his desertion. She found it typical of a Donas man to be caught up in the fascination of a sport as cruel as falconry. Oh, Peter could no doubt provide all sorts of rationalizations for his interest and for the existence of such a barbaric pastime. People were always very good at justifying something they enjoyed. Jenny, who had done a good deal of field excavation in Middle Eastern countries and therefore knew of the continued popularity of the blood sport among the aristocracy, had heard all of the excuses before. None of them held water as far as she was concerned! It simply wasn’t right to take a bird as free as the wind and train it to kill for man’s pleasure, to tie up its legs, stick a hood over its head and carry it around on a fist in a hotel situated in downtown Cairo. The bird belonged out in the freedom of the sky, where God had intended it should be, and that was exactly what she told Pete when he finally got around to returning to a cup of tea that had gone cold in his absence.

He made her furious by simply ignoring her comment, brushing it aside with a slight wave of his hand, as if it had obviously come from a woman who couldn’t possibly know anything about the mater. “Spectacular bird!” was what he did say, adding hot tea to the cold liquid in his cup. “A female peregrine that, I venture to say, cost her owner a pretty penny. Belongs to one of the sheikhs down south. A Sheikh Abdul Jerada.”

Jenny couldn’t have cared less, except that someone ought to have stuck Sheikh Jerada’s head in a hood, bound his feet and carried him around the Nile Hilton to see how he liked it. Someone should have done the very same thing to the man sitting across from her. “It’s barbaric!” she said firmly, pouring herself more tea. “It’s something straight out of the Middle Ages.”

“It’s a very ancient sport,” he replied, as if somehow to insinuate that old was good, purely by definition.

“So was burning witches,” Jenny informed him. “You don’t find that practice flourishing much anymore, do you?”

“No, well,” he muttered, leaving it at that, as if he and she both knew one didn’t really have anything to do with the other. There was a moment of pregnant silence between them.

“Do you do much hawking in England, Mr. Donas?” she asked, unable to leave the subject alone. It gave her an inner satisfaction to know that, just as she had always suspected, Peter Donas did have a slightly perverted and sadistic streak, much like the one his grandfather must have had.

“No,” he said, obviously disappointed. “I’ve always wanted to engage in the sport, but it takes such a good deal of time, you know, and I never seem to be in England long enough to select a bird and put it through the proper paces.”

“But you would if you had the time?” Jenny inquired, pressing on. She could see him now, delighting in snatching helpless baby birds from their nests, just as his grandfather had snatched a mother from hers.

“I doubt if I’d ever have the time for a peregrine like that one,” he replied, nodding in the direction of the man who still stood in wait for Sheikh Jerada. Jenny ha watched Pete all through their conversation; he had been shifting his gaze back and forth between her and that damned bird. Why hadn’t he taken it to tea? He was obviously more interested in it at the moment than he was in her. To think she had missed out on the museum for this! “Few people I know can do justice to a superb bird like that one,” he went on, as if he believed she was interested. “It’s a matter of finding suitable quarry, for one thing. Peregrines are flown at small game like partridge and grouse.” Yes, Jenny knew. “Besides,” he continued, “and this is the really difficult part, in this day and age of cramped living space, access to anywhere from one thousand to three thousand acres of open land is hard to come by.”

Jenny thought she had had quite enough even before he added something about a dog—a pointer or a setter—being a necessity for grouse hawking. “I really musts be going, Mr. Donas,” she said, setting down her teacup very gently and flashing him a smile that, she hoped, had little more warmth in it than an ice cube. “It’s been charming talking birds with you, but I really do have other things to do since I’m leaving the day after tomorrow on the Osiris for a trip up the Nile.” She could have been more specific and said to Idfu and then to Hierakonpolis, but she didn’t, wondering why. It would have been the perfect time to burst the bubble.

“You’re planning to squeeze a few meals in there somewhere, aren’t you?” he asked. Jenny couldn’t see what that had to do with him. “So, why don’t you let me take you to supper this evening?” he suggested. She thought he was pretty bold—and sure of himself. There was no apparent rhyme or reason for his invitation. The man should have been able to see as clearly as she could that the two of them were as different as night and day. Not only that, but since he had asked her to tea and had spent the whole time ogling the spotted breast feathers of some bird, she could just imagine what it would be like trying to hold his attention for the duration of a whole meal. “I know a spot in town that serves simply excellent hamama,” he said. Hamama was pigeon.Their conversation had moved from phoenixes to hawks to pigeons. T least she could say he was consistent, even if he did have a one-track mind. “Do you know what hamama is, Jenny?” he asked. Yes, she knew what hamama was. Yes, she knew what gambari—shrimp—and firakh—chicken—and gamoosa—water-buffalo meat—were, too. “It’s pigeon,” he said, obviously having been unable to read her mental affirmation. “Very popular inEgypt. Raised all up and down the Nile Valley. Watch when you pass the houses on your Nile trip and you’ll invariably see large domed pottery structures attached to them. They’re put there expressly for raising the pigeons that are later usually grilled over a low fire.”

“That does sound delicious,” Jenny said. Actually, she had tasted hamama previously, and she had liked it. “However, I’m afraid…”

“You don’t know what you’ll be missing,” he interrupted. Jenny got the distinct impression that, as if he thought he was God’s gift to woman, his insinuation of her missing something had more to do with his company than with Egyptian cuisine. Really, the man was insufferable!

“Let me guess,” she said, “you simply can’t bear to see someone who isn’t a convert to falconry, and you’ve planned a whole evening around proselytizing over hamama and moz bi-laban.” She hoped he’d noticed that she could throw around an Arab word or two of her own. Mozbi-laban was a local fruit drink made by blending bananas with milk and sugar. In fact, it often became a meal in itself.

“I won’t utter a word about falconry,” he promised, his golden eyes blazing like those of a zealot as he once again glanced covetously over his shoulder at the female bird still perched on he waiting Arab’s fist.

“All right,” she replied, thinking how amusing it was going to be for Peter Donas to arrive at Hierakonpolis and discover that a supposedly simply tourist, the one had wined and dined in Cairo, was none other than the granddaughter of Geraldine Fowler and his associate on the dig.

“Great!” he said, her acceptance bringing his attention back to her for the moment. “About eight o’clock?”

“I’ll meet you here in the lobby,” she told him. She stood. “Until then….”

He came to his feet when she did, stooping slightly to put his teacup back on its saucer. “I shall be looking forward to it,” he said.

With a nod in parting she left him and headed across the lobby for the elevator. She couldn’t wit until they met in Hierakonpolis and…. She had been so caught up in her thoughts that she almost collided with a tall dark-complexioned Arab in a flowing white galabia. “I am sorry,” he said in a pleasantly modulated English. The fact that she was an American must have stood out like a sore thumb. He was obviously being polite to a foreigner, since it was apparent to everyone, him and Jenny included, that their near collision had been entirely her fault.

“I’m the one who should apologize,” she said. “I should have been paying more attention to where I was going.”

He had dark velvety eyes, a mustache and a nearly trimmed beard. He was probably in his early thirties…as tall as Peter, if not a bit taller. Jenny should have been off having supper with someone exotically handsome like this! She was, after all, in Egypt—land of desert sheikhs and harem tents with floors covered by Tunisian carpets—Egypt wasn’t known for its rugs—and walls hung with tapestries. No, she had to find herself attracted to an Englishman who…. Yes, she could perhaps get away with admitting that the word attracted was applicable here. But even so, it was simply a matter of her being drawn to him because he was who he was, she was who she was and their grandparents had been who they were.

She realized suddenly that she was still standing in the middle of the hotel lobby, face to face with the attractive Arab. She couldn’t imagine what was getting into her. She certainly couldn’t help wondering what the man was thinking, even if the slight upturn at the corners of his full mouth did indicate amusement. She hoped her reverie had taken mere seconds instead of the minutes it now seemed. “I really am sorry,” she said, curious if she was blushing through her tan. He bowed slightly as she finally managed enough locomotion to get herself headed for the elevators. Naturally, the elevators were busy stopping at every floor but this one, seemingly determined to leave her standing there forever. Her back to the lobby, she imagined that the Arab was probably musing on why the foreign tourists in his country didn’t at least keep their eyes open. She speculated as to whether Peter had seen the near collision. If so, he probably thought it had been caused by her excitement over having been asked to supper by him. The elevator door slid open on an empty compartment. Jenny stepped inside, turned and pushed the button for the tenth floor. Just before the door closed in front of her, she chanced a hurried glance out into the lobby. She was definitely disappointed to discover that neither the Arab nor Peter seemed at all interested in her. They were together in front of the man with the peregrine falcon. It was quite obvious from their rapturous expressions that they were not discussing Jenny at all but were talking about a rather disgusting blood sport in which they obviously had a common interest.

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“IL BENNU,” disse lui, riferendosi al geroglifico di un airone con due grandi piume che crescevano sul dietro della sua testa. L’uomo si era unito silenziosamente a Jenny nella piccola alcova al primo piano del Museo Egizio del Cairo. Lei stava davanti ad un bassorilievo di arenaria che era stato recuperato nell’area intorno ad Abu Simbel quando il Nilo era stato arginato dietro la multi milionaria Saad al-Ali – la Grande Diga di Aswan.

Fu sorpresa dalla sua improvvisa compagnia. Sebbene il museo fosse all’angolo del Nile Hilton, e per questo abbastanza accessibile, molti turisti di solito andavano alla più impressionante esibizione di Tutankhamen che si trovava al secondo piano. Jenny se la stava tenendo da parte come ultima, come si mette da parte un buon dolce da essere assaporato dopo un pasto completamente soddisfacente e deliziosamente saziante.

Pensò che l’uomo fosse un turista – parlava un perfetto inglese, sebbene con un accento decisamente incantevole che era più brittanico che americano. Avrebbe dovuto sospettare qualcosa dal modo in cui era capace di identificare una figura chiave nello scrittura geroglifica. Jenny conosceva poche persone, a parte i suoi colleghi nella professione di archeologo, che erano così decisamente portati alla materia. “Si”, disse lei, voltandosi verso di lui, abbastanza preparata a dare una definizione più dettagliata del personaggio dell’airone così lui avrebbe saputo che non era l’unico con una modesta conoscenza di Egittologia. Nonostante i problemi creati dalla poca illuminazione per cui il Museo Egizio era famigerato, Jenny lo riconobbe immediatamente.

“Non per niente un airone, sapete”, disse Peter, mancando di notare nella poca luce come il sangue se ne fosse andato dalla sua faccia. “Rappresenta la fenice – quel uccello leggendario vissuto cinquecento anni prima di trasformare il suo nido in un pira funeraria e di bruciarsi nelle fiamme incandescenti”. Alzò la mano come per prevenire ogni interruzione. In verità, Jenny non aveva ritrovato ancora la sua voce. Era bloccata da qualche parte alla base della sua gola, dove aveva trovato posto quando aveva realizzato chi lui fosse. “Ma c’è un lieto fine”, continuò lui, “perchè rinacque come nuova dalle sue ceneri per vivere altri cinquecento anni – cento anni più o meno, naturalmente”.

Sorrise – un sorriso davvero attraente. Se avesse sorriso fin dall’inizio, lei avrebbe potuto non riconoscerlo, perché le sue fotografie lo avevano sempre rappresentato come molto serio. Oh, si, lei aveva una sua foto – diverse, in effetti raccolte da giornali e riviste di archeologia. Le aveva fedelmente raccolte in un album che cominciava nel 1922. Non che lui o Jenny fossero già nati nel 1922. No, le prime foto dell’album non erano di lui ma del nonno, seguite da quelle del padre, e poi dalle sue.

“Credo che voi abbiate un posto da qualche parte negli Stati Uniti chiamato Phoenix, non è vero?” chiese lui. Jenny provò una strana sensazione alla radice dei capelli, sentendo che rabbrividiva giù vero la suola dei suoi piedi. Doveva pensare che anche lui l’avesse riconosciuta. Tuttavia, se era così, non poteva credere che lui fosse così indifferente. “E’ in Arizona, non è vero?” chiese lui.

“Arizona?” disse Jenny, sembrando proprio un pappagallo e sentendosi perciò molto stupida.

“Phoenix, Arizona”, la informò lui. “E’ questo il posto, non è vero?”

“Oh, si”, ammise lei, cercando disperatamente di mettere insieme i suoi pensieri in modo coerente. Se lui poteva andare avanti in questo modo con così tanta sicurezza di sé, Jenny era determinata ad eguagliarlo. Il suo vero problema era che non si era aspettata questo incontro per il momento. Era arrivata in Egitto in anticipo in modo da aver tempo per prepararsi mentalmente per il loro incontro programmato a Hierakonpolis. Oh, aveva detto a se stessa che aveva bisogno dei giorni aggiuntivi in modo da poter fare una piacevole crociera sul Nilo verso il sito degli scavi, ma la vera ragione era stata il suo bisogno di un po’ di tempo qui in Egitto per prepararsi.

“Simbolizza il sole del mattino che nasce dalla nebbia dell’alba”, continuò lui. Per un momento Jenny non seppe di cosa stesse parlando lui, e poi capì che lui stava continuando a darle una lezione sul geroglifico dell’airone. Trovò l’atteggiamento paternalistico di Peter molto più che un poco irritante. Doveva sapere che lei era informato di quello che lui stava dicendo quanto lo era lui. “Per questo è stato concepito come l’uccello del sacro dio-sole, Re”, continuò lui. Se intuiva il crescente malumore di lei, certamente non lo lasciò trasparire. “Rappresenta il nuovo sole di oggi che emerge dal corpo del vecchio sole di ieri – una manifestazione di Osiride, il simbolo della resurrezione e della luce”. Terminò con una citazione del libro di Job che, alcuni studiosi ipotizzavano, indicava che la leggenda della fenice fosse stata riportata negli insegnamenti giudaico-cristiani: “E poi lui disse, morirò nel mio nido, è moltiplicherò i miei giorni come la sabbia”.

"Chi perdona tutte le iniquità, che cura tutti i malanni, che soddisfa la tua bocca con buone cose, così la gioventù si rinnova come le aquile”, ribatté Jenny, felice che la sua voce avesse finalmente perduto il suo confuso suono acuto. La sua citazione veniva dal Libro dei Salmi. Mentre né l'uno né l'altro riferimento probabilmente avevano qualcosa a che fare la fenice, anche se il mitico uccello era sempre stato rappresentato come un’aquila nell'arte Greco-Romana, lei aveva almeno dimostrato che poteva eguagliarlo oscurità per oscurità.

"Dico io, davvero buono!" si complimentò lui, sembrando genuinamente elogiativo. Jenny realmente non poteva credere che lui non si fosse aspettato che lei fosse così informata sull'argomento quanto lo era lui. Lei poteva non avere ottenuto la sua educazione a Oxford, ma aveva tutto l'accreditamento nel loro campo comune per eguagliarlo diploma per il diploma. C’erano anche alcune persone che potevano persino dire, dopo il suo lavoro allo scavo di Avaris sul lato orientale del delta del Nilo, che lei era quella più qualificata per il lavoro su questo scavo a Hierakonpolis di quanto lo era lui. "Il mio nome è Peter", le disse lui. "Peter Donas".

Automaticamente porse la sua mano. Non aveva voluto farlo. Almeno questo è quello che disse a se stessa. Il suo era soltanto un riflesso naturale dovuto a introduzioni dopo introduzioni alle conferenze, ai tè dell'università, o mentre veniva a contatto del flusso senza fine di accademici che si muoveva dentro, fuori, ed intorno alla cerchia di Jenny. Certamente voleva la sua mano indietro nel momento in cui lui la prese, trovando che la tenne ben più a lungo di quanto era previsto dalle buone maniere. L’avrebbe ritirata a forza, tranne che trovava che il potere nelle dita callose di lui aveva in qualche modo prosciugato tutta la sua forza.

"Il vostro?" chiese lui, facendole chiedersi se si stava riferendosi alla sua mano, che non aveva liberato. Le sue dita sembrano insignificanti all'interno della presa a coppa di quelle potentemente più grandi di lui.

"Il vostro?" chiese lei, incerta di cosa lui stesse chiedendo. Continuava ad essere un poco confusa, questo intero scenario in qualche modo la innervosiva. Non sapeva perché il loro incontro non avesse potuto avvenire più tardi, come previsto, anziché ora. Aveva così sperato di essere calma, fredda e preparata.

"Io vi ho già detto il mio nome", disse lui, chiarendo il problema e regalandole una risata deliziata. "Peter Donas, vi ricordate? Quello che stavo sperando, naturalmente, era che voi poteste dirmi il vostro. So che siete americana perché prima ho sentito che chiedevate alla guardia sulla posizione attuale della mummia di Ramses II ed ho rilevato il vostro accento. Così, poiché entrambi parliamo un linguaggio comune e siamo entrambi lontano da casa, stavo sperando che non avreste preso troppo malvolentieri un po’ di compagnia".

Trovò la forza per tirare indietro la sua mano. Di più, ci riuscì con una forza che la sorprese. Doveva ammettere, tuttavia, che lui non era stato eccessivamente rapido nel suo recupero.

"La assicuro che", disse lui con una risata di piacere apparente, "che le mie intenzioni sono del tutto innocenti. Non ho niente di più sinistro in mente che una passeggiata in compagnia attraverso questi corridoi bui e poi, forse, un po'di tè di nuovo all'hotel. Per caso anche voi state all’Hilton?" Jenny era furiosa. Anche se era impallidita visibilmente dopo averlo visto per la prima volta in piedi vicino a lei, era ora di un rosa acceso. Lui si ritirò leggermente, come per dimostrare che non le stava per saltare addosso. "Davvero, sono del tutto innocente", la assicurò lui. "Croce sul cuore; che potessi morire. Tutto quello che sto suggerendo è una passeggiata, una chiacchierata e del tè".

Apparentemente pensava che lei fosse preoccupata che lui ci stesse provando là nell’alcova del museo, pensava che lei fosse dispiaciuta perché lui sembrava una specie di libertino alla caccia di una povera giovane - ventinove anni non erano poi così tanti - turista americana. Tuttavia non era questo che la stava disturbando. Lui non l’aveva riconosciuta; questo era il problema. Lei lo aveva identificato subito,ma lui ancora non la riconosceva. Questo significava che lui aveva pensato che lei non avesse riconosciuto il geroglifico del bennu come quello di ba – un dipinto dell'anima egiziana con un corpo di uccello e la testa di un umano. Nessuna meraviglia che fosse rimasto sorpreso quando lei aveva ribattuto con quel testo biblico circa la gioventù che si rinnova come le aquile. Sarebbe stato già brutto se lui l’aveva avvicinata, intavolando una chiacchierata innocente. Scoprire che lui aveva presunto fin dall’inizio che lei fosse una Miss Turista Qualsiasi era francamente un colpo al suo ego - professionale e altro. Lui avrebbe dovuto sapere. Lui avrebbe dovuto riconoscerla. Lei era Jenny Mowry. Suo nonno aveva abbandonato sua nonna. Jenny e questo uomo avrebbero potuto essere fratello e sorella se Geraldine Fowler e Frederic Donas si fossero sposati.

"Jenny Mowry!" voleva gridargli contro. "Ricordate il mio trattato su Creta? Ho detto che Creta era tutto quello che rimaneva di Atlantide dopo che era stato distrutta dal vulcano su Thira, e voi ve ne siete uscito pubblicamente e avete detto che la mia teoria, mentre non era nuova, era ancora una grande stupidaggine come era sempre stata". Che audacità definire il lavoro e la ricerca di una persona stupidaggine quando lui non poteva neppure riconoscerla mentre stava in piedi proprio vicino a lei! L'illuminazione era scarsa. L'illuminazione era molto scarsa. Ma l'illuminazione non era poi così scarsa. "Dovete scusarmi; devo andare”, disse lei, sentendo che la sua voce suonava con una forzata mancanza di respiro, Si domandava perché non poteva fare in modo che le sue gambe seguissero le sue intenzioni, mettendo un piede di fronte all’altro per portarla fuori da là. Probabilmente pensò che lui dovesse ancora capire chi lei fosse.

"Parliamo prendendo un tè, allora" disse lui. "Avete detto che state tornando all'hotel adesso, no?"

"No", rispose lei. "Non ho detto questo, in effetti".

"Oh”, disse lui, apparentemente castigato e con una punta di rimpianto.

Lei avrebbe dovuto andarsene proprio ora e in quel momento, fuggendo da lui attraverso il largo atrio e dentro la via calda e polverosa del Cairo. Poi, quando si sarebbero incontrati ancora tra alcuni giorni a Hierakonpolis, lui avrebbe capito il suo passo falso. "Tè?" disse invece lei.

"Tè?" gli fece eco lui.

"Mi avete offerto di comprarmi del tè, non è vero?" chiese lei, come se fosse lui quello strano. Aveva una presa migliore della situazione ora e si sentì un po’ più in controllo. "O non lo avete fatto?"

"Sì, naturalmente", affermò lui. "Effettivamente le ho offerto del tè. Avevo, tuttavia, l'impressione che voi aveste detto di no".

"Avrete senza dubbio sentito dire che è prerogativa delle signore di cambiare idea?” disse Jenny. “Beh, potrebbe essere un luogo comune e una verità lapalissiana poco leale, ma ho cambiato idea. In realtà, mi farebbe piacere una tazza di tè". Quello che desiderava fare era di uscire alla piena luce del giorno. Desiderava che quel sole egiziano splendente la illuminasse come un riflettore, evidenziando i suoi capelli color miele che facevano da alone al suo viso ovale come la criniera di un leone; evidenziando i suoi occhi marroni scuri, il suo naso impertinente con le sue cinque lentiggini, la sua bocca sensuale ma non troppo sensuale, la sua fossetta, la sua pelle che, diversamente da quella di tante bionde, si abbronzava quasi alla perfezione. Poi avrebbe infine visto quella scintilla di riconoscimento nei suoi occhi dorati. Si occhi dorati – oro scuro e ricco. Jenny aveva visto tali occhi soltanto in certi uccelli da preda. No; non era del tutto vero. Gli occhi di quegli uccelli erano stati incisivi, decisamente pericolosi. Gli occhi di Peter erano un oro caldo che la attiravano, seducendola in una consapevolezza di loro ancora più intensa di quanto la sua consapevolezza dell’attraente forma quadrata della sua mascella e della fossetta sul suo mento che le faceva venire voglia di allungare la mano e toccarla, se i suoi occhi non la avessero attirata di nuovo verso di loro.

"Grande!" disse lui. La prese per la parte superiore del braccio, ovviamente pensando che lei avrebbe avuto dei problemi ad orientarsi nei corridoi del museo, quando in realtà lei se ne era andata in giro abbastanza tranquillamente prima che lui apparisse sulla scena. Se c’era qualcuno che aveva bisogno di aiuto nel vedere nella luce inadeguata, era lui. Lei aveva avuto certamente abbastanza luce per vederlo. Tuttavia non si tirò indietro, riuscendo con successo a respingere l’impulso di farlo. Dopo tutto, era una cortesia da gentiluomo da parte sua, e Jenny, sebbene credesse nei diritti delle donne e volesse pari opportunità lavorative, stipendi eguali e eguale riconoscimento delle sue credenziali, ancora godeva di avere le porte aperte per lei, i cappelli sollevati e i gentiluomini che si alzavano per salutarla se entrava in una stanza. Non poteva davvero liberarsi dalla sua stretta senza essere eccessivamente scortese, ma la sua mano le stava facendo qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Non che lei potesse davvero capire cosa la stesse infastidendo, perché non poteva. Non la stava tenendo troppo strettamente. Non stava muovendo le sue dita. La sua mano era semplicemente là, semplicemente mandando quei strani piccoli brividi su per il suo braccio, dentro la sua gola e petto, giù… Si consolò nel sapere che lui avrebbe rimosso la sua mano abbastanza presto appena avesse capito chi aveva a rimorchio.

Grazie a Dio, la luce del giorno! Era proprio là davanti, incorniciata dalle voluminose porte aperte dell’entrata principale del museo. Non ci sarebbe voluto ancora molto ora. Appena alcuni passi in più. Uno, due, tre.....

"Ohhhhhh!" gemette lei, non credendo di essere inciampata. Non era sembrato esserci niente su cui inciampare. Tuttavia eccola la, incespicare nella penombra del Museo Egiziano, come se stesse dando a Peter Donas una qualche scusa valida per essersi preso la libertà di mettere la sua mano sul suo braccio fin dal principio.

"Ti ho preso!" annunciò trionfalmente lui. L’aveva proprio presa, come un polipo – tutto braccia. Ed erano delle braccia così forti, poi. Braccia così forti. E come sembrava duro il suo petto sotto la sua camicia mentre i passi incerti di lei la portavano a diretto contatto con lui quando si girò per fermare la sua caduta.

"Sto benissimo", disse lei. "Davvero, sto benissimo". Stava provando con tutta se stessa di non sembrare come se non avesse appena saltato oltre il bordo di un precipizio e stesse ancora cadendo.

"E’ previsto che restaurino questo posto presto", le disse lui, le sue braccia che non la avvolgevano più, il suo petto non più duro contro il petto di lei. Era tornato ad avere solo la sua mano sul suo braccio. "Hanno previsto di usare una parte dei profitti dall'esposizione di Tut che è andata in giro per il mondo".

Uscirono alla luce del sole, e con sommo dispiacere di Jenny lui ancora non la riconobbe. In ogni caso, non diede alcun indicazione di averlo fatto. "Il museo era scuro, ma almeno era fresco", fu tutto quello che disse quando si fermarono sul portico fuori del grande edificio color ocra dietro di loro. "Devono esserci più di cento gradi qua fuori". Lei fu in qualche modo raddolcita dal fatto che lui stava ovviamente avendo problemi a vedere qualche cosa in quel momento. Una mano proteggeva i suoi occhi dorati, l’altra teneva ancora il suo braccio, come se si aspettasse che lei inciampasse giù sugli scalini che conducevano al cortile. Lei ragionò che dove il museo era stato troppo buio, l’esterno era troppo luminoso. Anche lei stava sbattendo gli occhi e lui poteva difficilmente riconoscerla con la faccia interamente sfigurata. Così se lui non poteva riconoscerla nell'oscurità del museo e non poteva riconoscerla alla abbagliante luce del sole del Cairo il passo successivo era di cercare l'illuminazione eventualmente migliore all'interno dell'hotel.

Anche se lei continuava a non avere problemi a guardarlo. Lui era più grande di quando lei avesse pensato che fosse. Lei era alta un metro e settanta, e lui torreggiava sopra di lei di più di dieci centimetri, facendo più alto di un metro e ottanta. Sembrava anche più giovane rispetto a quanto mostravano le sue immagini, probabilmente perché sembrava sempre così serio nelle fotografie. I redattori delle pubblicazioni scientifiche avevano una predisposizione per la serietà, istigando in questo modo le voci che nessuno nella Comunità scientifica si divertisse mai. Questo semplicemente non era vero.

Peter stava cercando di far superare a Jemmy una via congestionata di traffico che variava da una Mercedes costosa ad un carretto stipato tirato da un asino. Il gregge di capre che improvvisamente arrivò da dietro l’angolo si aggiunse alla confusione. Jenny non si sarebbe mai potuta abituare a vedere il bestiame sfilare in mezzo alle vie trafficate in una metropoli di quasi dieci milione di persone. La presa di Peter si strinse sul suo braccio, avvertendola che avrebbe fatto meglio a fermarsi o rischiava di essere investito da un automobile d’epoca americana che sarebbe stata relegata al ferro vecchi negli Stati Uniti. Non solo stava ancora correndo in Egitto, ma avrebbe probabilmente continuato a correre per un buon numero di anni a venire, tenuta insieme dalle preghiere e dai legacci di budello.

Avanti in lontananza era apparso il Nilo Hilton, una struttura moderna in una conglomerazione di nuove e vecchie costruzioni. Cairo era un’altra di quelle città antichissime che provavano a fare il passaggio da passato a presente. Il risultato era un’accozzaglia di Est che incontra l’Ovest e di vecchio che incontra il nuovo, il tutto lasciava il visitatore a immaginarsi di aver raggiunto un flusso temporale che lo ha gettato dai minareti medioevali un minuto alle discoteche di vetro-e-cromo l’istante successivo.

Jenny gettò uno sguardo di lato, ancora una volta guardando Peter Donas alla piena luce del sole. Maledizione, lui era attraente, anche se quello non aveva niente a che fare con qualsiasi cosa! Lui e lei erano stati destinati molto prima di nascere ad essere nemici. Che questo incontro stesse progredendo nel modo in cui ora stava progredendo era soltanto perché Peter ancora non aveva capito chi lei fosse. Ed era evidente che ancora non l’avesse riconosciuta quando, percependo i suoi occhi su di lui, si girò nella sua direzione e sorrise. Peter Donas che sorrideva a Jenny Mowry era certamente qualcosa che lei non si sarebbe mai aspettato di vedere. Era anche un sorriso decisamente piacevole, uno che intagliò delle deboli linee agli angoli degli occhi dorati di lui. Se i suoi occhi non trasmettevano alcun indizio di pericolo, questo non significava che Jenny si ritenesse al sicuro. Si sentiva tutto tranne che sicura, anche se non era del tutto certa del perché. Certamente non temeva alcun genere di danno fisico. La sua mano sul suo braccio, la sua presa che aumentava leggermente per dirle quando era sicuro che lei si muovesse ancora, era in realtà rassicuramene.

"Al sicuro in fine!" annunciò lui, guidandola sul marciapiede e verso l'entrata del loro hotel. Jenny quasi rise alla sua scelta di parole, arrivando nello stesso momento dei suoi pensieri di pericolo. Capì che il pericolo che temeva era una minaccia al suo lato emotivo, piuttosto che al suo fisico. Infatti, lei lo aveva probabilmente previsto fin dal momento in cui aveva accettato di venire in Egitto sapendo che li ci sarebbe stato Peter Donas. Questo era il motivo per cui lei aveva voluto una settimana in terra egiziana per prepararsi mentalmente al loro incontro. Ma lui era riuscito a metterla nell’arena senza concederle il tempo per prepararsi spiritualmente. Era vulnerabile, resa ancora di più vulnerabile dal fatto che aveva sempre dato per scontato che sarebbe arrivato il giorno in cui si sarebbero incontrati, riconoscendosi a vicenda e sentendo la tragedia che li univa. Beh, quel giorno era arrivato, e loro si erano incontrati, e lei lo aveva riconosciuto, sentendo i legami invisibili che li tenevano uniti. Ma lui non l’aveva riconosciuta. Lui ovviamente non aveva sentito nulla – la qual cosa lasciava Jenny a domandarsi se non avesse vissuto un’illusione per tutto questo tempo. Forse non c’era niente come la predestinazione.

Forse l'affinità che sentiva per la nonna deceduta non aveva niente a che fare con qui ed ora, solo con le fantastiche immaginazioni di una bambina a cui, stando una volta in piedi davanti ad un ritratto di Geraldine Fowler, era stato detto che la sua faccia e quella nel dipinto erano immagini allo specchio. Geraldine, morta a trenta quattro anni in Egitto, morta come tanti altri che erano stati là quando gli operai del Conte di Carnarvon, sotto la direzione di Howard Carter, avevano dissotterrato a Tebe le scalinate che conducevano alla tomba del re Tutankhamen. Morta non a causa del maleficio antico sulla tomba, ma perché l'uomo che aveva amato non suo marito - aveva sposato un'altra donna meramente per una dote. Il nonno di Peter non era sembrato più pericoloso di quanto apparisse ora Peter. Jenny lo sapeva perché aveva delle fotografie di Frederic Donas. Lui era sembrato giovane, ma era stato giovane – più giovane di dieci anni di Geraldine. Era stato affascinante, anche se affascinante quanto Peter. Aveva detto a Geraldine che lui la amava, e poi se ne era andato a sposare la nonna di Peter in Inghilterra. Doveva essere più che una coincidenza che la nipote di Geraldine Fowler ed il nipote di Frederic Donas fossero ora in Egitto, entrambe diretti ad uno scavo archeologico soltanto alcune miglia più in su dalla scena di quella tragedia di tanto tempo fa.

Peter la fermò all’ingresso principale dell'hotel. Entrambi fecero un passo indietro mentre un gruppo di turisti tedeschi si avvicinava. Stavano probabilmente andando fuori a visitare i tesori di Tutankhamen, e Jenny improvvisamente realizzò che se ne era andata senza vederli. Oh, aveva visto i pezzi più piccoli della collezione – quelli che avevano fatto il giro della capitali del mondo - ma non gli articoli più grandi tenuti permanente in esposizione al museo del Cairo, fra loro i sarcofagi che, uno all'interno dell'altro, avevano tenuto il re ragazzo, la sua mummia avvolta in starti di cloisonné d'oro. Due volte in precedenza Jenny era venuta in Egitto e non aveva visto i tesori leggendari. Non c’era stato tempo durante il suo primo viaggio. Era venuta in volo in visita al padre allo scavo di Saïs ed era volata via verso Creta il giorno seguente. C’era stato più tempo quando aveva contribuito a scavare le sezioni di Avaris, ma il museo era stato chiuso proprio il giorno in cui era andata a Il Cairo, interrompendo un programma di lavoro pieno specificamente per vedere i tesori. Non era riuscita a tornare fino ad ora, e ora li aveva mancati perché Peter Donas l’aveva invitata per un tè. Non poteva crederci ed ancora non era del tutto sicura di come fosse successo.

Il gruppo passò; Jenny e Peter entrarono nell'hotel. Immediatamente lei fu preso dalla stessa sensazione che aveva sperimentato ogni volta che era entrata in un Hilton – la sensazione che indubbiamente aveva qualcosa a che fare con quello che suo padre aveva detto una volta, "Bendatemi, mettetemi a sedere in un qualsiasi Hotel Hilton nel mondo, toglietemi le bende, e vi dirò che probabilmente non posso dirvi in che paese siamo, e tanto meno in che città". Avrebbe potuto trovare più facile identificare il posto in questo Hilton, tuttavia, poiché c’era un decisa aura di Medio Oriente negli uomini che stavano in piedi intorno a loro nelle loro lunghe tuniche, indossando copricapi e sandali.

Peter fece strada verso una piccola zona proprio fuori l'ingresso dove lei avrebbero avuto una buona vista del traffico pedonale. Tolse la sua mano dal suo braccio, e sorprendentemente lei desiderò che lui non lo avesse fatto. Si sedette, e lui prese una sedia di fronte a lei. Li separava un tavolino da caffè di ottone tipico dei lavorati d'ottone per cui l’Egitto era internazionalmente rinomato. Fece un cenno ad un cameriere in giacca d’orata e ordinò il tè. "Ora potrebbe essere più facile continuare una conversazione se conoscessi il vostro nome", disse lui, rivolgendo la sua attenzione completamente a Jenny. Si sedette indietro nella sua sedia, incrociando le gambe così che la sua caviglia sinistra si inclinava sul suo ginocchio destro. Indossava stivali da equitazione neri, pantaloni neri, e una camicia a maniche corte. Aveva dei peli neri sugli avambracci e sulla parte posteriori delle sue grandi mani, ma Jenny non poteva vederne sulla V di petto abbronzato visibile attraverso il colletto aperto. Si trovò a congetturare se lui avesse così tanti peli sul petto o se ci fosse soltanto una distesa liscia di pelle nuda sopra i muscoli ben definiti. Nessun dubbio che ci fossero dei muscoli. Poteva vederne la prova malgrado la camicia di lui... qualcosa circa il modo in cui il materiale si appoggiava su di lui. "O la devo chiamare Sig.ra X?" disse lui. “Sig.ra X?” suggerì l’alternativa in modo giocoso.

Jenny fu brevemente irritata dal tono stuzzicante della sua voce. “Sig.ra X?” aveva chiesto lui, e lei non poté non domandarsi se gli sarebbe importato che lui fosse una donna sposata. Certamente non era importato a suo nonno che Geraldine Fowler fosse stata una donna sposata, o che avesse due bambini, o che avesse lasciato marito e figli in un tentativo di trovare la felicità con lui, solo per scoprire troppo tarsi che lui aveva fatto dei piani per sposare un’altra donna per denaro. Prima Jenny avrebbe messo fine a questa mascherata, meglio sarebbe stato. Peter non l’aveva riconosciuta nel museo, all’esterno, o qui. Non aveva nessun indizio. "Jenny”, disse lei, dandogli quel indizio. “Il mio nome è Jenny”.

"Molto bene, quindi", disse lui, e lei poteva dire dal modo in cui lui lo disse che il suo nome non aveva fatto suonare alcun campanello. "Che cosa porta Jenny in Egitto? Una vacanza?"

Lei era Jenny Mowry, venuta per aiutarlo nello scavo archeologico a Hierakonpolis. Lei era la nipote di Geraldine Fowler che era stata abbandonata da suo nonno. Certamente lui aveva sentito la storia. A meno che un giovane uomo non fosse una preda così facile come una ragazza per il romanticismo di un amore non corrisposto o per il pathos di una donna che, dopo aver con successo implorato il marito a riprenderla indietro per il bene dei loro bambini, si era semplicemente stesa una mattina a Tebe ed era morta per un cuore spezzato. In ogni modo, il medico presente non aveva potuto offrire una diagnosi alternativa più adatta.

Il tè arrivò e Peter lo versò, chiedendole se volesse il suo "bianco", aggiungendo latte quando lei fece un cenno col capo. Notò che lui prese il suo "nero". Notò inoltre che lui controllava la manipolazione del fragile servizio da tè senza apparente problema, malgrado la larghezza delle sue mani. C’era, infatti, una certa magnifica grazia nel modo in cui lui alzò la sua tazza verso la bocca, sorseggiò, fece un'espressione di soddisfazione genuina al sapore, e la guardò da sopra l'orlo della tazza. In ogni caso lei pensò che lui la stesse guardando da sopra l'orlo della sua tazza. Questo era il motivo per cui fu così piacevolmente sconvolta quando lui sussurrò.

"Assolutamente affascinante!"

"Che cosa?" chiese lei. Sembrò una risposta piuttosto inadeguata, ma era tutto quello che poteva fornire al momento.

Fu quando gli occhi di lui infine la misero a fuoco direttamente che Jenny realizzò che il suo complimento non era stato diretto a lei ma a qualcuno direttamente dietro di lei. "Mi volete scusare appena per un breve momento", disse lui, alzandosi in piedi.

Lei si girò per seguire la sua figura in ritirata, ed immediatamente individuò che cosa aveva attirato il suo sguardo. Fuori ad un lato dell'ingresso, l'oggetto di occhiate inquisitive anche dai membri della popolazione locale era un arabo che indossava un guanto di cuoio pesante che copriva la sua mano sinistra e molto del suo avambraccio anteriore. Un falcone era appollaiato saldamente sul pugno serrato dell'uomo. C’erano strisce di cuoio fissate alle zampe dell'uccello, trattenendolo al guanto. Il falcone era incappucciato con una protezione di cuoio colorato che nascondeva interamente la sua testa tranne il becco tagliente. Il cappuccio era di un arancio luminoso, con un piumaggio di piume di collo di pollo guarnite con lane colorate e legate strettamente insieme con legacci di fine ottone fissato sulla parte superiore. Jenny guardò Peter avvicinarsi all'uomo. Era più che un poco piccata di essere stata abbandonata per qualche uccello da caccia. Era anche un poco imbarazzata di aver pensato che il suo “Assolutamente affascinante!” fosse riferito a lei. Quanto stupido da parte sua! Avrebbe dovuto sapere meglio, perché certamente lei non era affascinante. Oh, aveva tutti gli ingredienti adatti, ma in qualche modo non si erano mescolati insieme in un modo che lei considerasse affascinante. Attraente, sì. Forse anche carina. Ma non affascinante. Era assalita da emozioni contrastanti: la gelosia che quel uccello avesse attirato un complimento che lei non poteva attirare; la gratitudine che il commento di Peter non fosse diretto a lei in modo che era salva dall'imbarazzo di dirgli che quel adulazione non lo avrebbe portato in nessun posto.

Sorseggiò il suo tè, sempre più indignata dal suo abbandono. Lo trovava tipico di un uomo dei Donas di essere preso dal fascino di uno sport crudele come la falconeria. Oh, Peter poteva senza dubbio fornire tutte le spiegazioni per il suo interesse e per l'esistenza di un passatempo così barbarico. La gente era sempre molto brava a giustificare qualcosa che apprezzavano. Jenny, che avevano fatto molti scavi sul campo in paesi medio-orientali e pertanto era venuta a conoscenza della popolarità continua del sanguinoso sport fra l’aristocrazia, aveva sentito tutte quelle giustificazioni prima. Nessun di loro reggeva per quanto importava a lei! Non era semplicemente giusto prendere un uccello libero come il vento ed addestrarlo ad uccidere per il piacere dell'uomo, legare le sue zampette, mettere un cappuccio sopra la sua testa e trasportarlo in giro su un pugno in un hotel situato nel centro del Cairo. L'uccello apparteneva alla libertà del cielo, in cui Dio aveva inteso dovesse essere, e quello era esattamente quello che lei disse a Peter quando quest’ultimo infine si degnò di tornare alla tazza di tè diventata fredda in sua assenza.

Lui la rese furiosa semplicemente ignorando il commento, dimettendolo con un gesto leggero della mano, come se fosse venuto ovviamente da una donna che non potesse possibilmente conoscere niente della materia. "Uccello spettacolare!" fu quello che disse, aggiungendo tè caldo al liquido freddo nella sua tazza. "Un pellegrino femmina, oserei dire, costata al suo proprietario un braccio e un piede. Appartiene ad uno degli sceicchi del sud. Lo Sceicco Abdul Jerada".

Jenny non poteva curarsene di meno, salvo che qualcuno avrebbe dovuto mettere la testa dello sceicco Jerada in un cappuccio, legare i suoi piedi e trasportarlo in giro per il Nile Hilton per vedere se gli piaceva. Qualcuno avrebbe dovuto fare la stessa cosa all'uomo che sedeva di fronte a lei. "E’ barbarico!" disse fermamente lei, versandosi dell’altro tè. "E’ qualcosa che arriva diritto dal Medio Evo".

"E’ uno sport molto antico," replicò lui, come ad insinuare che vecchio era buono, puramente per definizione.

"Così era bruciare le streghe", informò Jenny. "Non credete che quella pratica prosperi ancora, non è vero?"

"No, beh..." mormorò lui, spiazzato, come se lui e lei entrambi sapessero che uno realmente non era paragonabile con l'altro. Ci fu un momento di silenzio assoluto tra di loro.
"Praticate molto la falconeria in Inghilterra, Sig. Donas?" chiese lei, incapace di lasciare da parte l’argomento. Le dava soddisfazione sapere che, proprio come aveva sempre sospettato, Peter Donas aveva un lato un po’ perverso e sadico, proprio come quello che suo nonno doveva aver avuto.

"No", disse lui, ovviamente deluso. "Ho sempre desiderato intraprendere quello sport, ma ci vuole molto tempo, sapete, e non sembro mai essere in Inghilterra abbastanza a lungo per selezionare un uccello e fargli fare tutti i passi adeguati".

"Ma lo fareste se aveste il tempo?" domandò Jenny, premendo. Poteva vederlo ora, a dilettarsi a strappare gli uccelli appena nati e indifesi dai loro nidi, proprio come suo nonno aveva strappato una madre dal suo.

"Dubito che mai avrei il tempo per un falco pellegrino come quello", rispose lui, annuendo col capo in direzione dell'uomo che ancora stava in attesa dello sceicco Jerada. Jenny aveva guardato Peter per tutta la durata della loro conversazione; lui aveva spostato avanti e indietro il suo sguardo da lei a quel maledetto uccello. Perché lui non lo aveva portato a prendere il tè? Era ovviamente più interessato ad esso in quel momento di quanto lo era in lei. Pensare che era uscita dal museo per questo! “Conosco poche persone che possono fare giustizia ad un uccello superbo come quello", continuò lui, come se credesse che lei fosse interessata. "E’ una questione di individuazione della caccia adatta, per esempio. I falchi pellegrini volano per piccoli giochi come la pernice ed il gallo cedrone". Sì, Jenny lo sapeva. "Inoltre", continuò lui, "e questa è la parte realmente difficile, in questi giorni ed epoca di spazi abitativi ristretti, l’accesso a qualsiasi posto da mille a tre mila acri di terra aperta è dura da ottenere".

Jenny pensò che ne aveva abbastanza anche prima che lui aggiungesse qualcosa su un cane – un pointer o un setter – che era una necessità per la caccia col falco al gallo cedrone. "Devo realmente andare, Sig. Donas", disse lei, mettendo molto delicatamente giù la sua tazza da tè e facendo un sorriso smagliante che, sperava, fosse solo un poco più caldo di un cubetto di ghiaccio. "E’ stato affascinante parlare di uccelli con lei, ma realmente ho altre cose da fare poiché me ne andrò dopo domani sulla Osiris per un viaggio sul Nilo". Avrebbe potuto essere più specifica e dire verso Idfu e poi a Hierakonpolis, ma non lo fece, domandandosi perché. Sarebbe stato il momento perfetto per far scoppiare la bolla di sapone.

"State progettando di infilarci dei pasti da qualche parte, non è vero?" chiese lui. Jenny non poteva vedere cosa c’entrasse questo con lui. "Così, perché non mi lasciate portarvi a cena questa sera?" suggerì lui. Lei pensò che lui fosse abbastanza audace - e sicuro di sè. Non sembrava esserci nessun apparente senso o motivo per l'invito. L’uomo avrebbe dovuto essere capace di vedere chiaramente come poteva lei che loro due erano differenti quanto la notte dal giorno. Non soltanto quello, ma poiché lui le aveva chiesto di prendere il tè ed aveva speso tutto il tempo lanciando sguardi amorosi alle piume macchiate del seno di un qualche uccello, lei poteva solo immaginare che cosa sarebbe stato provare a tenere la sua attenzione per la durata di un pasto intero. "Conosco un posto in città che serve un hamama semplicemente eccellente", disse lui. L’hamama era il piccione. La loro conversazione si era spostata dalle fenici verso i falchi ai piccioni. Almeno lei poteva dire che lui era costante, anche se aveva una mente a senso unico. "Sapete che cosa è l’hamama, Jenny?" chiese lui. Sì, lei sapeva che cosa era l’hamama. Sì, lei sapeva anche che cosa erano i gambari – gamberi - e firakh – pollo - e il gamoosa – carne di bufalo d’acqua. "E’ piccione" disse lui, ovviamente incapace di leggere la sua affermazione mentale. "Molto popolare in Egitto. Allevato dappertutto lungo la valle del Nilo. Guardate quando passerete le case nel vostro viaggio sul Nilo e vedrete sicuramente le grandi strutture a cupola di terracotta fissate ad esse. Sono messe là espressamente per allevare i piccioni successivamente cotti solitamente a fuoco basso".

"Questo suona squisito", disse Jenny. In realtà, lei aveva assaggiato l’hamama in precedenza, e lo aveva gradito. "Tuttavia, mi spiace..."

"Non sapete cosa vi perdete”, interruppe lui. Jenny ebbe la chiara impressione che, come se Peter pensasse di essere un regalo di Dio per ogni donna, la sua insinuazione su lei che si perdeva qualcosa avesse più a che fare con la sua compagnia che con la cucina egiziana. Realmente, l'uomo era insopportabile!

"Lasciatemi indovinare", disse lei, "non potete semplicemente sopportare di vedere qualcuno che non sia un convertito alla falconeria, ed avete progettato un’intera sera a fare proseliti mangiando l’hamama e il moz bi-laban". Sperò che lui avesse notato che lei poteva buttare là una parola araba o due da sola. Mozbi-laban era una bevanda locale a base di frutta fatta mescolando le banane con il latte e lo zucchero. Infatti, spesso diventata un pasto in sè.

"Non dirò una sola parola sulla falconeria", promise lui, i suoi occhi dorati ardenti come quelli di un fanatico mentre ancora una volta lanciava uno sguardo bramoso sopra la sua spalla all’uccello femmina ancora appollaiato sul suo pugno arabo in attesa.

"D’accordo", rispose lei, pensando quanto divertente sarebbe stato per Peter Donas arrivare a Hierakonpolis e scoprire che una presunta semplice turista, quella a cui aveva offerto da bere e portato a cena al Cairo, era nient’altro che la nipote di Geraldine Fowler e sua socia nello scavo a Hierakanpolis.

"Grande!" disse lui, la sua accettazione che riportava la sua attenzione indietro su di lei per un momento. "Alle otto circa?"

"La incontrerò qui all'ingresso" gli disse lei. Si alzò "Fino ad allora...."

Lui si alzò quando lo fece lei, piegandosi leggermente per rimettere la sua tazza da tè sul suo piattino. "Attenderò con ansia quel momento”, disse lui.

Con un cenno del capo allontanandosi lei lo lasciò e si diresse attraverso l'ingresso verso l’ascensore. Non vedeva l’ora che si rincontrassero a Hierakonpolis e.... Era stata così presa nei suoi pensieri che quasi si scontrò con un arabo alto e dalla pelle scura che indossava una fluttuante tunica bianco. "Mi spiace", si scusò lui in un inglese piacevolmente modulato. Il fatto che lei fosse un americano doveva essere evidente come un pollice indirizzato. Lui era ovviamente gentile con una straniera, poiché era chiaro a tutti, lui e Jenny inclusi, che il loro quasi scontro era stato interamente colpa di lei.

"Sono io quella che dovrebbe chiedere scusa" disse lei. "Avrei dovuto prestare più attenzione a dove stavo andando".

Lui aveva occhi vellutati scuri, dei baffi e una barba tagliata in modo preciso. Aveva probabilmente poco più di trenta anni... alto quanto Peter, se non un poco più alto. Jenny avrebbe dovuto andare a cena con qualcuno così esoticamente affascinante! Lei era, dopo tutto, in Egitto - terra di sceicchi del deserto e tende dei beduini con pavimenti coperti da tappeti tunisini – l’Egitto non era noto per le sue coperte - e le pareti con appesi degli arazzi. No, lei doveva ritrovarsi attratta da un inglese che.... Si, lei doveva ammettere che la parola attratta era applicabile in questo contesto. Ma anche così, era solo una questione di essere attirata da lui perché lui era chi era, lei era chi era e i loro nonni erano stati chi erano.

Improvvisamente si rese conto che stava ancora in piedi nel mezzo dell'ingresso dell'hotel, faccia a faccia con l'attraente arabo. Non poteva immaginare che cosa gli stesse succedendo. Certamente non poté non domandarsi cosa stesse pensando l’uomo, anche se il leggero sollevarsi degli angoli della bocca piena dell'affascinante uomo indicava il suo divertimento. Sperò che il suo sogno ad occhi aperti fosse durato pochi secondi anziché i minuti che sembrava ora. "Sono realmente dispiaciuta", disse lei, curiosa di sapere se stesse arrossendo sotto la sua abbronzatura. L'arabo si inchinò leggermente mentre lei infine metteva insieme abbastanza movimento per dirigersi verso gli ascensori. Naturalmente, gli ascensori erano occupati fermi ad ogni piano tranne questo, apparentemente risoluti a lasciarla in piedi là per sempre. La schiena rivolta verso l'ingresso, immaginò che l'arabo stesse ancora probabilmente pensando divertito sul perché i turisti nel suo paese non potessero almeno tenere gli occhi aperti. Si domandò se Peter avesse visto il quasi scontro. In caso affermativo, lui probabilmente aveva pensato che fosse stato causato dal suo eccessivo eccitamento a cui era stato chiesto di uscire a cena con lui. Le porte dell’ascensore si aprirono su uno scompartimento vuoto. Jenny fece un passo all'interno, girandosi e premendo il tasto per il decimo piano. Appena prima che le porte si chiudessero davanti a lei, arrischiò un'occhiata affrettata fuori nell'ingresso. Fu definitivamente delusa nello scoprire che né l'arabo né Peter sembrassero del tutto interessati a lei. Erano insieme davanti all'uomo con il falco pellegrino. Era abbastanza evidente dalle loro espressioni rapite che non stavano per niente discutendo di Jenny ma stavano parlando un disgustoso sport sanguinario in cui ovviamente avevano un interesse in comune.

Blurb of GOLDSANDS: They were as different as sun and moon... Gil Goldsands believed he could handle any complications that might arise on his archaeological assignment in Egypt. But he hadn't anticipated the two dynamic men who would pursue him from the moment he arrived. Powerful Sheikh Abdul Jerada - darkly handsome, openly passionate - clearly wanting Sand's love. Peter Donas - elusive and as seductive as the desert; his kisses and touch as fiery and consuming as the hot Saharan sun - wanting? Goldsands wasn't quite sure!

Erano differenti quanto il sole e la luna… Gil Goldsands credeva di poter gestire tutte le complicazioni che potevano presentarsi nel suo incarico archeologico in Egitto. Ma non aveva previsto i due uomini dinamici che lo avrebbe perseguitato dal momento del suo arrivo. Il potente sceicco Abdul Jerada - tenebrosamente affascinante, apertamente appassionato - chiaramente desideroso dell'amore di Goldsands. Peter Donas - evasivo e seducente quanto il deserto; i suoi baci e il suo tocco ardentemente e bruciante quanto il caldo sole del Sahara - desideroso? Goldsands non ne era del tutto sicuro!

Excerpt from GOLDSANDS
by William Maltese
MLR Press
© 2007

“THE BENNU,” the man said, referring to the hieroglyph of a heron with two long feathers growing from the back of its head. He’d quietly joined Gil Goldsands in the small alcove on the first floor of the Egyptian Museum in Cairo. Gil was facing forward, at the time, toward a sandstone relief that had been saved from the area around Abu Simbel when the Nile had been backed up behind the multimillion-dollar Saad al-Ali—the Aswân High Dam.

Gil was surprised by his sudden company. The museum was kitty-corner from the Nile Hilton and, therefore, quite accessible to tourists, but most visitors usually kept to the more impressive Tutankhamen exhibit located on the second floor. Gil was saving that until last, rather like saving a fine dessert to be savored after a thoroughly enjoyable and deliciously filling meal.

At first, Gil assumed he’d been joined by a tourist—the man spoke perfect English, albeit with a thoroughly enchanting accent that was more British than American. Gil should have been forewarned by the way the guy was able to identify a key figure in hieroglyphic script. Gil knew very few people, besides his colleagues in the archaeological profession, who were so thoroughly versed. “Yes,” Gil said, turning, quite prepared to further define the heron character and prove Gil’s own more-than-just-a-modicum knowledge of Egyptology. Despite being handicapped by the long-complained-about warehouse-like dimness, for which the Egyptian Museum was notorious, Gil realized immediately that it was Peter Donas beside him.

“It really isn’t a heron at all, you know,” Peter said, failing to notice, what with the poor lighting, the expression of recognition on Gil’s face. “It represents the phoenix—that legendary bird that lived for five hundred years before converting its nest into a funeral pyre and cremating itself in the searing flames.” He held up his hand as if to prevent any interruption. “But there is a happy ending,” he continued, “for it emerged as good as new from its own ashes to live for another five hundred years—give or take a hundred years, of course.”

He smiled—a very attractive smile. Peter’s pictures always showed him as seemingly very somber. Oh, yes, Gil had Peter’s picture—several of them, in fact—mainly culled from archaeological journals and magazines. Gil had faithfully filed them in an album begun in 1922. Not that Peter or Gil had been alive in 1922. The album’s first pictures had been of Peter’s grandfather, Frederic, followed by Peter’s father, Thomas, and then by Peter Donas.

“I do believe you have a city somewhere in the United States called Phoenix, do you not?” Peter asked. Gil couldn’t believe Peter could be so blasé. “It’s in Arizona, isn’t it?” Peter asked.

“Arizona?” Gil echoed, sounding to himself very much like a parrot and feeling ridiculous because of it.

“Phoenix, Arizona,” Peter elucidated. “That is the city in question, yes?”

“Right,” Gil admitted, trying to get his thoughts into some cohesive order. If Peter could carry this through with such aplomb, Gil was determined to match him. Gil’s whole problem, of course, was that he hadn’t expected this meeting quite yet. He’d arrived in Egypt early just so he would have time to prepare for it—in Hierakonpolis.

“It symbolized the morning sun rising out of the glow of dawn,” Peter continued non-abashed. For a moment, Gil didn’t know what Peter was talking about, and then he realized Peter was still giving him a lesson on the heron hieroglyph. Gil found Peter’s patronizing attitude more than a little irritating. Peter had to know Gil was well-acquainted with what Peter was saying. “Hence it was conceived as the bird of the sacred sun-god, Re,” Peter rambled on. If he sensed Gil’s growing chagrin, he certainly didn’t let on. “It represented the new sun of today emerging from the body of the old sun of yesterday—a manifestation of Osiris, the symbol of resurrection and light.” He finished off with a quote from the book of Job that, some scholars argued, indicated that the phoenix legend had passed over into Judeo-Christian teachings: “‘Then I said, I shall die in my nest, and I shall multiply my days as the sand.’”

“‘Who forgiveth all thine iniquities, who healeth all thy diseases, who satisfieth thy mouth with good things, so that the youth is renewed like the eagles,’” Gil shot back, glad his voice sounded so calm, cool, and collected. His quotation came from the book of Psalms. While neither reference probably had anything whatsoever to do with the phoenix, although that mythical bird had always been represented as an eagle in Greco-Roman art, Gil had at least proved he could match Peter obscurity for obscurity.

“I say, that’s very good!” Peter complimented, seeming genuinely appreciative. Gil really couldn’t believe Peter hadn’t expected Gil to be as knowledgeable on the subject. Gil might not have gotten his education at Oxford, but he had all the accreditation in their mutually shared field to match Peter diploma for diploma. There were some people who might even say, after Gil’s work at the dig at Avaris on the eastern side of the Nile delta, that he was the one more qualified to work on this excavation at Hierakonpolis. “My name is Peter,” he told Gil. “Peter Donas.”

Automatically, Gil held out his hand. He hadn’t wanted to. At least, that’s what he told himself. His was merely a natural reflex born of introduction after introduction at lectures, college teas, or while meeting the never-ending stream of academicians who moved in, out of, and around Gil’s circle. Certainly, he wanted his hand back the moment Peter took it and held it far longer than was prescribed by good etiquette. Gil would have pulled it away by force, except he found something intensely pleasurable in the wraparound of Peter’s calloused fingers.

“Yours?” Peter asked, making Gil wonder whether he was referring to Gil’s hand, which he wouldn’t release. Gil’s fingers seemed way too comfortable within the cupping squeeze of Peter’s powerful hand.

“Yours?” Gil questioned, unsure just what Peter was asking. He continued to be a little muddled, this whole scenario so unexpected. Gil didn’t know why their meeting couldn’t have taken place later, as scheduled, instead of now. He had hoped to be better prepared.

“I’ve already told you my name,” Peter said, clearing up the problem and delivering a delighted laugh. “Peter Donas, remember? What I was hoping, of course, was that you might tell me your name. I know you’re American; I overheard you ask the guard back there a question about the present location of Ramses II’s mummy, and I detected your accent. So, since we both speak a common language and are both far from home, I was hoping you might not take too unkindly to some company.”

If Gil didn’t know better, he’d assume he was someone unknown to Peter and being cruised by him. He’d heard the rumors of Peter’s sexual preferences—once reported as totally heterosexual, then as bisexual, more lately as homosexual—but Gil had never entertained—other than in flights of pure fantasy to match those of the phoenix—that there would ever be any real sexually charged chemistry between them, once they met. Or, had he?

Somehow, he found the strength to pull back his hand. What’s more, he managed with a force that surprised him. He had to admit, however, that he hadn’t been all that quick in his recovery.

“I assure you,” Peter said with an accompanying laugh of apparent pleasure, “my intentions are purely admirable. I have nothing more sinister in mind than a mutually shared wander through these murky halls and then, perhaps, a bit of tea back at the hotel. By chance are you staying at the Hilton, too?” It suddenly struck Gil, slow on the uptake because of his initial confusion, that Peter possibly really didn’t know who Gil was. Was that really possible? Gil had been damned quick in identifying Peter. “Really, I’m all innocence,” Peter assured. “Cross my heart; hope to die. All I’m suggesting is walk, talk and tea.”

Apparently, he thought Gil was concerned that Peter was trying to make a pass, there in the dim alcove of the museum, Peter having mistaken Gil for some young—twenty-nine wasn’t that old—potentially gay American tourist. This meant Peter really had thought that Gil hadn’t known the bennu hieroglyph from that of a ba—a depiction of the Egyptian soul by a bird’s body with a human head—until Gil had proven otherwise. No wonder Peter had been surprised when Gil had shot back biblical text about youth renewing itself like eagles. All of which , frankly, was a blow to Gil’s personal and professional egos. Peter should have known Gil. He should have been embarrassed, from the get-go, as to how Peter’s grandfather had jilted Gil’s grandmother, as to how Gil and Peter might well have been brothers had Geraldine Fowler and Frederic Donas ever tied the knot.

“Gil Goldsands!” Gil wanted to fill in the blank. “Remember my treatise on Crete? I said that Crete was all that remained of Atlantis after it had been destroyed by the volcano on Thira, and you came out publicly and said my theory, while not a new one, was still as much poppycock as it had always been.” What audacity to call a person’s work and research poppycock when Peter couldn’t even recognize Gil standing right next to him! The lighting was bad. The lighting was very bad. But the lighting was definitely not that bad. “You’ll have to excuse me; I have to go,” Gil said, deciding to retreat and regroup.

“Let’s talk over tea, then” Peter said. “You’re heading back to the hotel now, you say?”

“No,” Gil answered. “I didn’t say that, as a matter of fact.”

“Oh,” Peter said, seemingly chastised and a bit at a loss.

Gil should have left, right then and there. He’d be better prepared when they met up in Hierakonpolis in a few days’ time. “Tea?” Gil said instead.

"Tea?” Peter echoed.

“You did offer to buy me tea, didn’t you?” Gil asked, as if Peter were the awkward one. Gil suddenly felt he had a better grasp of the situation and felt a tad more in control of it. “Or did you?”

“Yes, of course,” Peter affirmed. “I did indeed. I was, however, somehow under the impression that you had refused the offer.”

“Actually, I’d love some tea.” What Gil wanted was to get them out into the full light of day. He wanted that bright Egyptian sun to shine down on him, like a spotlight, pointing out his honey-colored hair; pointing out his dark brown eyes, his pert nose with its five freckles, his sensuous but not too sensuous mouth, his dimple, his skin that, unlike that of so many blondes, tanned to even perfection. Then, Gil would see that flicker of recognition spark at last in Peter Donas’s golden eyes. Yes golden eyes—dark and rich gold. Gil had seen such eyes only on certain birds of prey. No; not quite true. The eyes of those birds had been piercing, decidedly dangerous. Peter’s eyes were a warm gold that was perfect accompaniment for the attractive squareness of Peter’s jaw and the dimple in Peter’s chin.

“Great!” Peter said. “This way.” He maneuvered the dim museum with Gil automatically in tow.

Thank God, daylight! There it was right up ahead, framed by the massive open doors of the museum’s main entrance. It wouldn’t be long now. Just a few more steps. One, two, three…..

“Ohhhhhh, fuck!” Gil couldn’t believe he’d tripped, like some fucking heroine in a romance novel. There hadn’t seemed anything on which to trip. Yet, suddenly, there Gil was stumbling, as if purposely giving Peter Donas a valid excuse for a laying on of hands.

“Gotcha!” Peter announced triumphantly. He had Gil all right. Such big arms, too. Such strong arms. And how hard Peter’s chest felt beneath his shirt as Gil’s continuing unbalanced steps brought him into direct contact with his nemesis who had successfully interrupted Gil’s fall.

“I’m fine,” Gil said. “Really, I am fine.” He was trying very hard not to sound as if he had just tripped over the edge of a precipice and was still on his way down.

“They’re supposed to be remodeling this place soon,” Peter told him; his arms no longer wrapped Gil, his chest no longer hard against Gil’s chest, his hand no longer on Gil’s arm. “They’re scheduled to use some of the revenue from the Tut exhibit that recently went on world tour.”

They exited into the sunlight, and to Gil’s increased chagrin Peter still didn’t recognize who he’d picked up (figuratively and literally). In any case, Peter didn’t give any indication that he did. “The museum was dark, but at least it was cool,” was all Peter said when they paused on the porch outside the large ocher-colored building behind them. “It must be over a hundred out here.” Gil was somewhat mollified by his, as well as Peter’s, inability to see much of anything at the moment. One hand shielded Peter’s golden eyes. Gil rationalized that where the museum had been too dark, the outside was too bright. Gil was squinting and could hardly be expected to be recognized with his face all screwed up. So if Peter couldn’t recognize Gil in the dark of the museum, and he couldn’t recognize Gil in the light dazzling light of the Cairo sunshine, the next step was to seek out the hopefully better lighting inside the hotel.

Peter became intent upon getting across a street congested with traffic that ranged from an expensive Mercedes to a cluttered donkey cart. He was bigger than Gil thought he would be. Gil was six feet, and Peter had to be the same. He looked younger than his pictures, too, probably because he always seemed so dower in his photographs. Editors of scientific journals had a penchant for illustrating the somberness of scientists, perpetuating the myth that one and all within the scientific community were humorless. This simply wasn’t true.

The herd of goats that suddenly came barreling round the corner added to the mess. Gil could never get used to seeing livestock parading through the middle of busy streets in a metropolis of close to ten million people. Peter warned that Gil had better stop or risk getting run over by a vintage-model American car that would have been relegated to the wrecking yard in the United States. Not only was it still running in Egypt, but it would probably continue to run for a good many years to come, held together by prayers and chicken wire.

Ahead loomed the Nile Hilton: a modern structure among a conglomeration of new buildings and old. Cairo was one more of those age-old cities trying to make the transition from past to present. What resulted was a hodgepodge of East meeting West and old meeting new, all of which left the visitor imagining himself caught up in a time flux that tossed him from medieval minarets to glass-and-chrome discos.

Gil glanced sideways, once again taking in Peter Donas in full sunlight. Damn, Peter was handsome, although that had nothing whatsoever to do with anything! Peter and Gil had been destined, long before they’d been born, never to be friends. That this meeting was progressing the way it was now progressing was only because Peter still didn’t realize who Gil was. And it was obvious he still didn’t know Gil when, sensing Gil’s eyes on him, he turned in Gil’s direction and smiled. Peter Donas smiling at Gil Goldsands was certainly something Gil had never expected—ever—to see. It was a decidedly pleasant smile, too, one that carved faint crinkle lines at the corners of Peter’s golden eyes. If Peter’s eyes didn’t relay any hint of danger, that didn’t mean Gil was feeling safe. Gil was feeling anything but safe, although he wasn’t quite sure just why. He certainly didn’t fear any kind of physical harm. Peter’s whole demeanor remained anything but menacing.

“Safe at last!” Peter announced, headed up the sidewalk toward the entrance to their hotel.

Maybe, Gil thought, the affinity he’d always felt for his dead grandmother had nothing whatsoever to do with the here and now, only with the fanciful imaginings of a child who, once standing in front of a portrait of Geraldine Fowler, had been told that his face and the one in the painting were strikingly similar. Geraldine, dead at thirty-four in Egypt, dead like so many others who had been there when the Earl of Carnarvon’s workmen, under the direction of Howard Carter, had unearthed at Thebes the stairway leading to the tomb of King Tutankhamen. Dead not because of the ancient curse on the tomb, but because the man Geraldine had loved—not her husband, one day to be Peter’s grandfather—had married another woman for a sizable dowry.

Peter’s grandfather hadn’t looked any more dangerous than Peter looked now. Frederic had looked young, but he had been young—ten years Geraldine’s junior. He had been handsome, although not as handsome as Peter. He had told Geraldine he loved her, and then he had gone off to marry Peter’s one-day-too-be grandmother in England. Didn’t it have to be more than just a coincidence that the grandson of Geraldine Fowler and the grandson of Federic Donas were now in Egypt, both headed for an archaeological dig only a few miles upstream from the scene of that long-ago tragedy?

Peter stopped at the main door into the hotel, and so did Gil, to avoid the group of German tourists that came sweeping by. The Germans were probably off to visit the treasures of Tutankhamen, which Gil suddenly realized he had left the museum without taking in. Oh, he’d seen the smaller pieces of the collection—those even then making the rounds of the world capitals—but not the bigger items permanently kept on display at the Cairo Museum, among them the sarcophagi that, fitting one within the other, had held the boy-king, his mummy wrapped in wings of gold cloisonné. Twice previously, Gil had come to Egypt and not viewed the legendary treasures. There had been no time during his first trip. Gil had flown in to visit his father at the dig at Saïs and had flown out to Crete the very next day. There had been more time when Gil had helped excavate sections of Avaris, but the museum had been closed the one day Gil had made it into Cairo, interrupting a busy work schedule specifically to see the treasures. Gil had never gotten back until now, and now he had missed them because Peter Donas had invited him to tea. Gil couldn’t believe it and still wasn’t really sure how it had all come about.

The Germans passed; Gil and Peter entered the hotel. Immediately, Gil was possessed by that same feeling he experienced every time he entered a Hilton—the feeling that undoubtedly had something to do with his father once having said, “Blindfold me, sit me down in any Hilton Hotel in the world, take off my blindfold, and I’ll give you odds I can’t tell you what country I’m in, let alone what city.” Gil’s dad might have found the locale easier to identify in this Hilton, however, since there was a definite aura of the Middle East about the men standing around in their long galabias, headdresses, and sandals.

Peter led the way to a small area just off the lobby where they’d have a good view of the foot traffic. He sat down on one part of a circular couch parenthesizing a small table, and Gil joined him. The table was brass and typical of Egypt’s internationally renowned brass work. Peter motioned to a waiter in an off-gold jacket and ordered tea. “Now it might be easier to carry on a conversation if I did know your name,” he said, turning his attention fully to Gil. He sat back in his chair, crossing his legs so that his left ankle angled across his right knee. He was wearing black riding boots, black slacks, and a short-sleeved shirt. He had black hair on his forearms and on the backs of his large hands, but Gil couldn’t see evidence of any on the V of tanned chest visible at his open collar. Gil found himself speculating on whether Peter had much hair on his chest or whether there was only a smooth expanse of bare skin stretched tightly over his well-defined muscles all of the way to the man’s bulged crotch. No doubt about there being muscles. Gil could see evidence of them despite Peter’s concealing shirt… something about the way the material lovingly hugged the body-beautiful. “Or shall I call you Mr. X?” Peter said.

Gil couldn’t help wondering if it mattered only to him that Geraldine Fowler had been a married woman with two children when she’d jettisoned all of that in hopes of finding more happiness with Peter’s grandfather who betrayed her by running off to marry a woman with more money. Was Gil delusional to think Peter, or anyone else, should care, this long after the fact? Why in the hell did Gil even care? While it was okay to be a hopeless romantic as a lonely child…. “My name is Gil, by the way,” he belatedly introduced.

“Very well, then,” Peter said, and Gil could tell by the way he said it that the name Gil still wasn’t ringing any bells, either. “What brings Gil to Egypt? Holiday?” Peter asked.

Gil was Gil Goldsands, come to assist Peter Donas, and others, in the excavation of the archaeological dig at Hierakonpolis. Gil was the grandson of the Geraldine Fowler who had been jilted by the Frederic Donas. Surely, Peter had heard the story. More and more, though, Gil was feeling a little ridiculous for, perhaps, having been unduly influenced by the romanticism of unrequited love and pathos of a woman who, after having successfully begged her husband into taking her back for the sake of their children, had simply laid down one morning at Thebes and died of a broken heart. Anyway, the doctor present hadn’t been able to offer a more suitable alternative diagnosis.

Possibly, Gil would have become obsessed with other things (sports?) if he hadn’t been an only child, if he hadn’t been a lonely only child, if his parents hadn’t divorced when he was so young, if his father hadn’t spent so much bloody time on archaeological digs instead of with his son. As it was, Gil’s mother’s fascination with the long-ago tale of frustrated love had just somehow become Gil’s as if by osmosis.

The tea arrived and Peter poured, asking if Gil wanted “white,” adding milk when Gil nodded. Gil noticed that Peter took “black.” Also, he noticed that Peter managed the handling of the delicate tea service without appearing awkward, despite the largeness of his hands. There was, in fact, a certain magnificent grace in the way Peter lifted his cup to his mouth, sipped, made an expression of genuine satisfaction, and eyed Gil over the rim of the cup. In any case, Gil thought Peter was eyeing him over the rim of his cup. This was why he was so disconcerted when Peter whispered.

“Bloody, bloody handsome!”

“What?” Gil asked. It seemed a rather inadequate response, but it was all he could come up with at the moment.

It was when Gil’s eyes finally did focus directly on Peter’s eyes that he realized Peter’s compliment hadn’t been directed at him (silly Gil to have even thought so for a brief moment!) but at something or someone directly to Gil’s rear. “Will you please excuse me just a brief moment,” Peter said, getting to his feet.

Gil turned his gaze to follow Peter’s retreating figure, and immediately spotted what had caught his colleague’s eye. Off to one side of the lobby, the object of inquisitive glances, even from the members of the local population, was an Arab wearing a heavy leather glove that covered his left hand and much of his forearm. A falcon was perched firmly on the man’s clenched fist. There were strips of leather attached to the bird’s legs, restraining it on the glove. The falcon was hooded with a colorful leather cap that hid its entire head except for its sharp beak. The hood was bright orange, with a plume of cock’s hackle feathers garnished with colored wool and bound tightly together with fine brass wire affixed to the crown. Gil watched Peter approach the man. Gil was more than a little piqued that he’d been deserted for some hunting bird. Also, he was, in retrospect, a little embarrassed as to how he had actually thought Peter’s “Bloody, bloody handsome!” had referred to Gil. How asinine for Gil to mistake that! He should have known better, because he certainly wasn’t handsome, let alone bloody, bloody handsome. Oh, he had all of the right ingredients, but somehow they just didn’t come together, even now that he was thinner than usual, in a way he, personally, considered handsome. Okay attractive, yes, especially now that he was considerably thinner. But not handsome. Certainly, not bloody, bloody handsome. He was beset by conflicting emotions: jealousy that the bird had elicited a compliment he couldn’t; gratitude that Peter’s comment hadn’t been directed at him so that Gil was saved the embarrassment of telling Peter that flattery would get him nowhere.

He sipped his tea, more and more perturbed at being deserted. He found it probably typical of a Donas man (something in the genes) to be caught up in the fascination of a sport as cruel as falconry. Oh, Peter could no doubt provide all sorts of rationalizations for his interest and for the existence of such a barbaric pastime. People were always very good at justifying something they enjoyed. Gil, who had done a good deal of field excavation in Middle Eastern countries and, therefore, knew of the continued popularity of the blood sport among the aristocracy, had heard all of the excuses. None of them held water as far as he was concerned! It simply wasn’t right to take a bird as free as the wind and train it to kill for man’s pleasure, to tie up its legs, stick a hood over its head and carry it around on a fist in a hotel situated in downtown Cairo. The bird belonged in the freedom of the sky, where God had intended it should be, and that was exactly what Gil told Peter when the latter finally got around to returning to a cup of tea gone ice-cold in his absence.

Peter made Gil furious by simply ignoring the comment, brushing it aside with a slight wave of his hand, as if it had obviously come from someone who couldn’t possibly know anything about the mater. “Spectacular bird!” was what he did say, adding hot tea to the cold liquid in his cup. “A female peregrine that, I venture to say, cost her owner an arm and a leg. Belongs to one of the southern sheikhs. A Sheikh Abdul Jerada.”

Gil could have cared less, except that someone ought to have stuck Sheikh Jerada’s head in a hood, bound his feet and carried him around the Nile Hilton to see how he liked it. Someone should have done the very same thing to the man sitting across from Gil. “It’s barbaric!” Gil said firmly, pouring himself more tea. “It’s something straight out of the Middle Ages.”

“It’s a very ancient sport,” Peter reminded, as if to insinuate that old, purely by definition, was good.

“So was burning witches,” Gil informed. “You don’t find that practice flourishing much anymore, do you?”

“No, well…” Peter muttered, leaving it at that, as if he and Gil both knew one didn’t really equate with the other. There was a moment of pregnant silence.

“Do you do much hawking in England, Mr. Donas?” Gil asked, unable to leave the subject alone. It gave him satisfaction to know that, just as he had always suspected, Peter Donas did have a slightly perverted and sadistic streak, much like the one Frederic Donas must have had.

“No,” Peter said, obviously disappointed. “I’ve always wanted to, but it takes such a good deal of time, you know, and I never seem to be in England long enough to select a bird and put it through the proper paces.”

“But you would if you had the time?” Gil inquired, pressing on. He could see Peter now, delighting in snatching helpless baby birds from their nests, just as Peter’s grandfather had snatched a mother from hers.

“I doubt if I’d ever have the time for a peregrine like that one,” Peter replied, nodding in the direction of the man who still stood in wait (for Sheikh Jerada?). Gil had watched Peter all through their renewed conversation; Peter had been shifting his gaze back and forth between Gil and that damned bird. Why hadn’t Peter taken Miss Peregrine to tea? He was obviously more interested in the bird, at the moment, than he was, and probably ever would be, in Gil. To think Gil had missed out on the museum for this! “Few people I know can do justice to a superb bird like that one,” Peter went on, as if Gil were interested. “It’s a matter of finding suitable quarry, for one thing. Peregrines are flown at small game like partridge and grouse.” Yes, Gil knew. “Besides,” Peter continued, “and this is the really difficult part, in this day and age of cramped living space, access to anywhere from one thousand to three thousand acres of open land is hard to come by.”

Gil thought he’d had quite enough even before Peter added something about a dog—a pointer or a setter—being a necessity for hawk-hunting grouse. “I really must be going, Mr. Donas,” Gil said, setting down his teacup very gently and flashing a smile that, he hoped, had little more warmth than an iceberg. “It has been charming talking birds with you, but I really do have other things to do, since I’m leaving the day after tomorrow on the Osiris for a trip up the Nile.” He could have been more specific and said to Idfu and then to Hierakonpolis, but he didn’t, wondering why. It would have been the perfect time to end this ongoing charade.

“You’re planning to squeeze a few meals in there somewhere, aren’t you?” Peter asked. Gil couldn’t see what that had to do with anything. “So, why don’t you let me take you to supper this evening?” Peter suggested. Gil thought him pretty damned bold—and way too sure of himself. There seemed no apparent rhyme or reason for the invitation, unless Peter was out to pick up someone for sex. If so, Peter should have been able to see as clearly as Gil did that the two of them were as different as night from day. Not only that, but since Peter had asked Gil to tea and had spent the whole time ogling the spotted breast feathers of a female bird, Gil could just imagine what it would be like trying to hold Peter’s attention for the duration of a whole meal. “I know a spot in town that serves simply excellent hamama,” Peter said. Hamama was pigeon. Their conversation had moved from phoenix to hawk to pigeon. At least Peter was consistent. “Do you know what hamama is, Gil?” Peter asked. Yes, Gil knew what hamama was. Yes, Gil knew what gambari—shrimp—and firakh—chicken—and gamoosa—water-buffalo meat—were, too. “It’s pigeon,” Peter said, obviously having been unable to read Gil’s mental affirmation. “Very popular in Egypt. Raised all up and down the Nile Valley. Watch when you pass the houses on your trip up the Nile, and you’ll invariably see large domed pottery structures attached to them. They’re put there expressly for raising pigeons later usually grilled over a low fire.”

“That does sound delicious,” Gil said. Actually, Gil had tasted hamama, and he had liked it. “However, I’m afraid…”

“You don’t know what you’ll be missing,” Peter interrupted. Gil got the distinct impression that, as if Peter thought himself God’s gift to any potential trick, Peter’s insinuation of Gil missing something had more to do with Peter’s company than with Egyptian cuisine. Really, the man was, as Gil had always suspected he would be, insufferable—with or without the Frederic Donas / Geraldine Fowler scandal by way of backdrop!

“Let me guess,” Gil said, “you simply can’t bear to see someone who isn’t a convert to falconry, and you’ve planned a whole evening around proselytizing over hamama and moz bi-laban.” He hoped Peter noticed that Gil could throw around an Arab word or two of his own. Mozbi-laban was a local fruit drink made by blending bananas with milk and sugar. In fact, it often became a meal in itself.

“I won’t utter a word about falconry,” Peter promised.

“All right,” Gil replied, thinking how amusing it was going to be for Peter Donas to arrive at Hierakonpolis and discover that a supposedly simply tourist, wined and dined for possible sex in Cairo, was none other than the grandson of Geraldine Fowler and Peter’s associate on the Hierakanpolis dig.

“Great!” Peter said. “About eight o’clock?”

“I’ll meet you, here, in the lobby,” Gil told him. “Until then….”

Peter came to his feet when Gil did, stooping slightly to put his teacup back on its saucer. “I shall be looking forward to it,” he said.

With a nod in parting, Gil left him and headed across the lobby for the elevator. He couldn’t wait until they met in Hierakonpolis and…. Gil was so caught up in his thoughts that he almost collided with a tall dark-complexioned Arab in a flowing white galabia. “I am sorry,” the Arab apologized in pleasantly modulated English. The fact that Gil was an American must have stood out like a sore thumb. The Arab was obviously being polite to a foreigner, since it was apparent to everyone, Gil included, that their near collision had been entirely Gil’s fault.

“I’m the one who should apologize,” Gil said. “I should have been paying more attention to where I was going.”

The Arab had dark velvety eyes, a mustache and a nearly trimmed beard. He was probably in his early thirties…and as tall as Gil—actually, a bit taller. Gil should have been off having supper with someone just this exotically handsome! Gil was, after all, in Egypt—land of desert sheikhs and Bedouin tents with floors covered by Tunisian carpets—Egypt wasn’t known for its rugs—and walls hung with tapestries. No, Gil had to find himself scheduled for an evening with an Englishman who….

Suddenly, he realized that he was still standing in the middle of the hotel lobby, face to face with the attractive Arab. He couldn’t imagine what was getting into him. He certainly couldn’t help wondering what the Arab was thinking, even if the slight upturn at the corners of the handsome man’s full mouth did indicate amusement. Gil hoped his reverie had taken mere seconds instead of the minutes it now seemed. “I really am sorry,” Gil said, sincerely. The Arab bowed slightly as Gil finally managed enough locomotion to get headed, once again, for the elevators. Naturally, the elevators were busy stopping at every floor but at the one where Gil waited, seemingly determined to leave Gil standing there forever. His back to the lobby, he imagined that the Arab was probably still musing on why foreign tourists didn’t at least keep their eyes open. Gil speculated as to whether Peter had seen the near collision. If so, Peter probably thought it was caused by Gil’s excitement over having been asked to dinner. The elevator door—finally—slid open on an empty compartment. Gil stepped inside, turned and pushed the button for the tenth floor. Just before the door closed in front of him, he chanced a hurried glance out into the lobby. He was definitely disappointed that neither the Arab nor Peter seemed at all interested in Gil-in-the-elevator. They were together in front of the man with the peregrine falcon. It was quite obvious from rapturous expressions, all around, that they were not discussing Gil but a rather disgusting blood sport.

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“IL BENNU”, disse l’uomo, riferendosi al geroglifico di un airone con due grandi piume che crescevano sul dietro della sua testa. Si era unito silenziosamente a Gil Goldsands nella piccola alcova al primo piano del Museo Egizio del Cairo. Gil stava guardando avanti, in quel momento, verso un bassorilievo d’arenaria che era stato recuperato nell’area intorno ad Abu Simbel quando il Nilo era stato arginato dietro la multi milionaria Saad al-Ali – la Grande Diga di Aswan.

Gil fu sorpreso dalla sua improvvisa compagnia. Il museo era all’angolo del Nile Hilton e, per questo, abbastanza accessibile ai turisti, ma molti visitatori di solito andavano alla più impressionante esibizione di Tutankhamen che si trovava al secondo piano. Gil la stava tenendo da parte come ultima, come si mette da parte un buon dolce da essere assaporato dopo un pasto completamente soddisfacente e deliziosamente saziante.

In un primo momento, Gil pensò di essere stato raggiunto da un turista – l’uomo parlava un perfetto inglese, sebbene con un accento decisamente incantevole che era più brittanico che americano. Gil avrebbe dovuto sospettare qualcosa dal modo in cui l’uomo era capace di identificare una figura chiave nello scrittura geroglifica. Gil conosceva poche persone, a parte i suoi colleghi nella professione di archeologo, che erano così decisamente portati alla materia. “Si”, disse Gil, voltandosi, abbastanza preparato a dare una definizione più dettagliata del personaggio dell’airone e dimostrare la sua conoscenza più che modesta dell’Egittologia. Nonostante i problemi creati dalla poca illuminazione del Museo Egizio di cui da tempo ci si lamentava e per cui era famigerato, Gil capì immediatamente che quello vicino a lui era Peter Donas.

“Non per niente un airone, sapete”, disse Peter, mancando di notare, con quella poca luce, l’espressione di riconoscimento sulla faccia di Gil. “Rappresenta la fenice – quel uccello leggendario che è vissuto cinquecento anni prima di trasformare il suo nido in una pira funeraria e di bruciarsi nelle fiamme incandescenti”. Alzò la mano come per prevenire ogni interruzione. “Ma c’è un lieto fine”, continuò, “perché rinacque come nuova dalle sue ceneri per vivere altri cinquecento anni – cento anni più o meno, naturalmente”.

Sorrise – un sorriso davvero attraente. Le fotografie di Peter lo avevano sempre rappresentato molto serio. Oh, si, Gil aveva una foto di Peter – diverse, in effetti – per la maggior parte raccolte da giornali e riviste di archeologia. Gil le aveva fedelmente raccolte in un album che cominciava nel 1922. Non che Peter e Gil fossero già nati nel 1922. Le prime foto dell’album erano del nonno di Peter, Frederic, seguite dal padre di Peter, Thomas, e poi da Peter Donas.

“Credo che voi abbiate una città da qualche parte negli Stati Uniti chiamata Phoenix, non è vero?” chiese Peter. Gil non poteva credere che Peter fosse così indifferente. “E’ in Arizona, non è vero?” chiese Peter.

“Arizona?” gli fece eco Gil, sembrando anche a se stesso molto simile ad un pappagallo e sentendosi perciò molto ridicolo.

“Phoenix, Arizona”, lo informò Peter. “E’ questa la città in questione, non è vero?”

“Giusto”, ammise Gil, cercando di mettere insieme i suoi pensieri in modo coerente. Se Peter poteva portare avanti questa messa in scena con così tanta sicurezza di sé, Gil era determinato ad eguagliarlo. Il vero problema di Gil, naturalmente, era che non si era aspettato questo incontro per il momento. Era arrivato in Egitto in anticipo in modo da aver tempo per prepararsi ad esso – a Hierakonpolis.

“Simbolizza il sole del mattino che nasce dalla nebbia dell’alba”, continuò Peter per niente imbarazzato. Per un momento, Gil non seppe di cosa stesse parlando Peter, e poi capì che Peter stava continuando a dargli una lezione sul geroglifico dell’airone. Gil trovò l’atteggiamento paternalistico di Peter più che un poco irritante. Peter doveva sapere che Gil era ben informato di quello che Peter stava dicendo. “Per questo è stato concepito come l’uccello del sacro dio-sole, Re”, continuò a vaneggiare Peter. Se intuiva il crescente malumore di Gil, certamente non lo lasciò trasparire. “Rappresenta il nuovo sole d’oggi che emerge dal corpo del vecchio sole di ieri – una manifestazione d’Osiride, il simbolo della resurrezione e della luce”. Terminò con una citazione del libro di Job che, alcuni studiosi ipotizzavano, indicasse che la leggenda della fenice fosse stata riportata negli insegnamenti giudaico-cristiani: “E poi lui disse, morirò nel mio nido, è moltiplicherò i miei giorni come la sabbia”.

"Chi perdona tutte le iniquità, che cura tutti i malanni, che soddisfa la tua bocca con buone cose, così la gioventù si rinnova come le aquile”, ribatté Gil, felice che la sua voce suonasse così calma, fredda e raccolta. La sua citazione veniva dal Libro dei Salmi. Mentre né l'uno né l'altro riferimento probabilmente aveva qualcosa a che fare la fenice, anche se il mitico uccello era sempre stato rappresentato come un’aquila nell'arte Greco-Romana, Gil aveva almeno dimostrato che poteva eguagliare Peter oscurità per oscurità.

"Dico io, davvero buono!" si complimentò Peter, sembrando genuinamente elogiativo. Gil realmente non poteva credere che Peter non si fosse aspettato che Gil fosse così informato sull'argomento. Gil poteva non avere ottenuto la sua educazione ad Oxford, ma aveva tutto l'accreditamento nel loro campo comune per eguagliare Peter diploma per il diploma. C’erano anche alcune persone che potevano persino dire, dopo il lavoro di Gil allo scavo di Avaris sul lato orientale del delta del Nilo, che era quello più qualificato per il lavoro su questo scavo a Hierakonpolis. "Il mio nome è Peter", disse lui a Gil. "Peter Donas".

Automaticamente, Gil porse la sua mano. Non aveva voluto farlo. Almeno, questo è quello che disse a se stesso. Il suo era soltanto un riflesso naturale dovuto a introduzioni dopo introduzioni alle conferenze, ai tè dell'università, o mentre veniva a contatto del flusso senza fine di accademici che si muoveva dentro, fuori, ed intorno alla cerchia di Gil. Certamente, voleva la sua mano indietro nel momento in cui Peter la prese e la tenne ben più a lungo di quanto era previsto dalle buone maniere. Gil l’avrebbe ritirata a forza, ma trovava qualcosa di intensamente piacevole nella presa avvolgente delle dita callose di Peter.

"Il vostro?" chiese Peter, facendo chiedersi a Gil se si stava riferendosi alla mano di Gil, che non aveva liberato. Le dita di Gil sembravano fin troppo a loro agio all'interno della presa a coppa della mano potente di Peter.

"Il vostro?" chiese Gil, incerto di cosa Peter stesse chiedendo. Continuava ad essere un poco confuso, questo intero scenario così inatteso. Gil non sapeva perché il loro incontro non fosse potuto avvenire più tardi, come previsto, anziché ora. Aveva sperato d’essere meglio preparato.

"Io vi ho già detto il mio nome", disse Peter, chiarendo il problema e regalandogli una risata deliziata. "Peter Donas, vi ricordate? Quello che stavo sperando, naturalmente, era che voi poteste dirmi il vostro nome. So che siete americano; prima ho sentito che chiedevate alla guardia sulla posizione attuale della mummia di Ramses II, ed ho rilevato il vostro accento. Così, poiché entrambi parliamo un linguaggio comune e siamo entrambi lontano da casa, stavo sperando che non avreste preso troppo malvolentieri un po’ di compagnia".

Se Gil non avesse saputo meglio, avrebbe presupposto d’essere qualcuno sconosciuto a Peter e che lui lo stesse abbordando. Aveva sentito voci sulle preferenze sessuali di Peter - una volta lo dicevano completamente eterosessuale, successivamente bisessuale, più di recente omosessuale - ma Gil non aveva mai pensato – se non in voli di fantasia che eguagliavano quelli della fenice - che ci sarebbe mai stata della reale chimica sessuale fra loro, una volta che si fossero incontrati. O, lo aveva fatto?

In qualche modo, trovò la forza per tirare indietro la sua mano. Di più, ci riuscì con una forza che lo sorprese. Doveva ammettere, tuttavia, che non era stato così rapido nel suo recupero.

"La assicuro che", disse Peter con una risata di piacere apparente, "che le mie intenzioni sono del tutto innocenti. Non ho niente di più sinistro in mente che una passeggiata in compagnia attraverso questi corridoi bui e poi, forse, un po' di tè di nuovo all'hotel. Per caso anche voi state all’Hilton?" Gil fu improvvisamente colpito dal pensiero, ritardato ad assorbire a causa della sua confusione iniziale, che Peter realmente non sapesse chi fosse Gil. Era realmente possibile? Gil era stato maledetto rapido nell'identificare Peter. "Davvero, sono del tutto innocente", lo assicurò Peter. "Croce sul cuore; che potessi morire. Tutto quello che sto suggerendo è una passeggiata, una chiacchierata e del tè".

Apparentemente, pensava che Gil fosse preoccupato che Peter ci stesse provando, là nell’alcova poco illuminata del museo, Peter aveva scambiato Gil per qualche giovane – ventinove anni non era poi così vecchio - turista americano potenzialmente gay. Questo significava che Peter realmente aveva pensato che Gil non avesse riconosciuto il geroglifico del bennu come quello di ba – un dipinto dell'anima egiziana con un corpo d’uccello e la testa di un umano - fino a che Gil non aveva dimostrato il contrario. Nessuna meraviglia che Peter fosse stato sorpreso quando Gil aveva ribattuto con quel testo biblico circa la gioventù che si rinnova come le aquile. Tutto questo, sinceramente, era un colpo all’ego personale e professionale di Gil. Peter avrebbe dovuto conoscere Gil. Sarebbe dovuto essere imbarazzato, di come il nonno di Peter aveva abbandonato la nonna di Gil, perché Gil e Peter avrebbero potuto essere fratelli se Geraldine Fowler e Frederic Donas avessero mai stretto il nodo.

"Gil Goldsands!" Gil avrebbe desiderato riempire lo spazio in bianco. "Ricordate il mio trattato su Creta? Ho detto che Creta era tutto quello che rimaneva d’Atlantide dopo che era stato distrutta dal vulcano su Thira, e voi ve ne siete uscito pubblicamente e avete detto che la mia teoria, mentre non era nuova, era ancora una grande stupidaggine com’era sempre stata". Che audacità definire il lavoro e la ricerca di una persona stupidaggine quando Peter non poteva neppure riconoscere Gil in piedi proprio vicino a lui! L'illuminazione era scarsa. L'illuminazione era molto scarsa. Ma l'illuminazione non era poi così scarsa. "Dovete scusarmi; devo andare”, disse Gil, decidendo di ritirarsi e studiare un’altra strategia.

"Parliamo prendendo un tè, allora" disse Peter. "Avete detto che state tornando all'hotel adesso, no?"

"No", rispose Gil. "Non ho detto questo, in effetti".

"Oh”, disse Peter, apparentemente castigato e con una punta di rimpianto.

Gil sarebbe dovuto andarsene, proprio ora e in quel momento. Sarebbe stato meglio preparato quando si fossero incontrati a Hierakonpolis tra alcuni giorni. "Tè?" disse invece Gil.

"Tè?" gli fece eco Peter.

"Mi avete offerto di comprarmi del tè, non è vero?" chiese Gil, come se Peter fosse quello strano. Gil improvvisamente sentì che aveva una presa migliore della situazione e si sentì un po’ più in controllo della stessa. "Lo avete fatto?"

"Sì, naturalmente", affermò Peter. "Effettivamente l’ho fatto. Avevo, tuttavia, l'impressione che voi aveste rifiutato l'offerta".

"In realtà, mi farebbe piacere del tè". Quello che Gil desiderava era d’essere entrambi fuori alla piena luce del giorno. Desiderava che quel sole egiziano splendente lo illuminasse, come un riflettore, evidenziando i suoi capelli color miele; evidenziando i suoi occhi marroni scuri, il suo naso impertinente con le sue cinque lentiggini, la sua bocca sensuale ma non troppo sensuale, la sua fossetta, la sua pelle che, diversamente da quella di tanti biondi, si abbronzava quasi alla perfezione. Poi, Gil avrebbe infine visto quella scintilla di riconoscimento negli occhi dorati di Peter Donas. Si, occhi dorati – oro scuro e ricco. Gil aveva visto tali occhi soltanto in certi uccelli da preda. No; non del tutto vero. Gli occhi di quegli uccelli erano stati incisivi, decisamente pericolosi. Gli occhi di Peter erano un oro caldo che era un perfetto accompagnamento per l’attraente forma quadrata della mascella di Peter e per la fossetta sul mento di Peter.

"Grande!" disse Peter. "Da questa parte". Si mosse automaticamente attraverso il buio museo con Gil alle calcagne.

Grazie a Dio, la luce del giorno! Era proprio là davanti, incorniciata dalle voluminose porte aperte dell’entrata principale del museo. Non ci sarebbe voluto ancora molto ora. Appena alcuni passi in più. Uno, due, tre...

"Ohhhhhh, cavolo!" Gil non poteva credere di essere inciampato, proprio come un’eroina di un romanzo rosa. Sembra non esserci niente su cui inciampare. Tuttavia, improvvisamente, ecco là Gil che stava inciampando, come se stesse espressamente dando a Peter Donas una scusa valida per mettere le sue mani su di lui.

"Ti ho preso!" annunciò trionfalmente Peter. Aveva proprio preso Gil. E delle braccia così forti poi. E come sembrava duro il petto di Peter sotto la sua camicia mentre i passi senza presa di Gil lo portavano a diretto contatto con la sua nemesi che aveva fermato con successo la caduta di Gil.

"Sto benissimo", disse Gil. "Davvero, sto benissimo". Stava provando con tutto se stesso di non sembrare come se non avesse appena saltato oltre il bordo di un precipizio e stesse ancora cadendo.

"E’ previsto che restaurino questo posto presto", gli disse Peter; le sue braccia non avvolgevano più Gil, il suo petto non più duro contro il petto di Gil, la sua mano non più sul braccio di Gil. "Hanno previsto di usare una parte dei profitti dall'esposizione di Tut che recentemente è andata in giro per il mondo".

Uscirono alla luce del sole, e con sommo dispiacere di Gil, Peter ancora non aveva riconosciuto chi aveva rimorchiato (figurato e letteralmente). In ogni caso, Peter non diede alcun’indicazione di averlo fatto. "Il museo era scuro, ma almeno era fresco", fu tutto quello che disse Peter quando si fermarono sul portico fuori del grande edificio color ocra dietro di loro. "Devono esserci più di cento gradi qua fuori". Gil fu in qualche modo raddolcito dalla sua, così come da quella di Peter, incapacità di vedere qualche cosa in quel momento. Una mano proteggeva gli occhi dorati del Peter. Gil ragionò che dove il museo era stato troppo buio, l’esterno era troppo luminoso. Gil stava sbattendo gli occhi e poteva difficilmente aspettarsi di essere riconosciuto con la faccia interamente sfigurata. Così se Peter non poteva riconoscere Gil nell'oscurità del museo, e non poteva riconoscere Gil all’abbagliante luce del sole del Cairo, il passo successivo era di cercare l'illuminazione eventualmente migliore all'interno dell'hotel.

Peter stava cercando di attraversare una via congestionata di traffico che variava da una Mercedes costosa ad un carretto stipato tirato da un asino. Era più grande di quanto Gil pensava che fosse. Gil era alto un metro e ottanta e Peter doveva essere lo stesso. Sembrava anche più giovane rispetto alle sue immagini, probabilmente perché sembrava sempre così serio nelle sue fotografie. I redattori delle pubblicazioni scientifiche avevano la tendenza ad illustrare la sobrietà degli scienziati, perpetuando il mito che tutti all'interno della Comunità scientifica non erano spiritosi. Questo semplicemente non era vero.

Il gregge di capre che improvvisamente arrivò da dietro l’angolo, si aggiunse alla confusione. Gil non avrebbe mai potuto abituare a vedere il bestiame sfilare in mezzo alle vie trafficate in una metropoli di quasi dieci milione di persone. Peter avvertì Gil che avrebbe fatto meglio a fermarsi o rischiava di essere investito da un automobile d’epoca americana che sarebbe stata relegata al ferro vecchi negli Stati Uniti. Non solo stava ancora correndo in Egitto, ma avrebbe probabilmente continuato a correre per un buon numero d’anni a venire, tenuta insieme dalle preghiere e dai legacci di budello.

Avanti in lontananza era apparso il Nilo Hilton: una struttura moderna in una conglomerazione di nuove e vecchie costruzioni. Cairo era una più di quelle città antichissime che provavano a fare il passaggio da passato a presente. Il risultato era un’accozzaglia d’Est che incontrava l’Ovest e di vecchio che incontra il nuovo, il tutto lasciava il visitatore ad immaginarsi di aver raggiunto un flusso temporale che lo ha gettato dai minareti medioevali alle discoteche di vetro-e-cromo.

Gil gettò uno sguardo di lato, ancora una volta guardando Peter Donas alla piena luce del sole. Maledizione, Peter era attraente, anche se quello non aveva niente a che fare con qualsiasi cosa! Peter e Gil erano stati destinati, molto prima che nascessero, a non essere mai amici. Che questo incontro stesse progredendo nel modo in cui ora stava progredendo era soltanto perché Peter ancora non aveva capito chi fosse Gil. Ed era evidente che ancora non avesse riconosciuto Gil quando, percependo gli occhi di Gil su di lui, si girò verso Gil e gli sorrise. Peter Donas che sorrideva a Gil Goldsands era certamente qualcosa che Gil non si sarebbe mai aspettato – mai - di vedere. Era anche un sorriso decisamente piacevole, uno che intagliò delle deboli linee agli angoli degli occhi dorati di Peter. Se gli occhi di Peter non trasmettevano alcun indizio di pericolo, questo non significava che Gil si riteneva al sicuro. Gil si sentiva tutto tranne che sicuro, anche se non era del tutto certo del perché. Certamente non temeva alcun genere di danno fisico. L’intero atteggiamento di Peter rimaneva del tutto non minaccioso. "Al sicuro in fine!" annunciò Peter, diretto sul marciapiede verso l'entrata del loro hotel.

Forse, pensò Gil, l'affinità che aveva sempre sentito per la nonna deceduta non aveva niente a che fare con qui ed ora, solo con le fantastiche immaginazioni di un bambino a cui, stando una volta in piedi davanti ad un ritratto di Geraldine Fowler, era stato detto che la sua faccia e quella nel dipinto erano somiglianti in modo sconvolgente. Geraldine, morta a trenta quattro anni in Egitto, morta come tanti altri che erano stati là quando gli operai del Conte di Carnarvon, sotto la direzione di Howard Carter, avevano dissotterrato a Tebe le scalinate che conducevano alla tomba del re Tutankhamen. Morta non a causa del maleficio antico sulla tomba, ma perché l'uomo che Geraldine amava - non suo marito, quello che un giorno sarebbe stato il nonno di Peter - aveva sposato un'altra donna per una dote considerevole. Il nonno di Peter non era sembrato più pericoloso di quanto appariva ora Peter. Frederic era sembrato giovane, ma era stato giovane – più giovane di dieci anni di Geraldine. Era stato affascinante, anche se affascinante quanto Peter. Aveva detto a Geraldine che lui la amava, e poi se n’era andato a sposare la futura nonna di Peter in Inghilterra. Non doveva essere più che una coincidenza che il nipote di Geraldine Fowler ed il nipote di Frederic Donas erano ora in Egitto, entrambe diretti ad uno scavo archeologico soltanto alcune miglia più in su dalla scena di quella tragedia di tanto tempo fa?

Peter si fermò all’ingresso principale dell'hotel, e così fece Gil, per evitare il gruppo di turisti tedeschi che si avvicinava. I tedeschi probabilmente stavano andando fuori a visitare i tesori di Tutankhamen, e Gil improvvisamente capì che aveva lasciato il museo senza vederli. Oh, aveva visto i pezzi più piccoli della collezione – quelli che anche in questo momento stavano facendo il giro della capitali del mondo - ma non gli articoli più grandi tenuti permanente in esposizione al museo del Cairo, fra loro i sarcofagi che, uno all'interno dell'altro, avevano tenuto il re ragazzo, la sua mummia avvolta in starti di cloisonné d'oro. Due volte in precedenza, Gil era venuto in Egitto e non aveva visto i tesori leggendari. Non c’era stato tempo durante il suo primo viaggio. Gil era venuto in volo in visita al padre allo scavo di Saïs ed era volato via verso Creta il giorno seguente. C’era stato più tempo quando Gil aveva contribuito a scavare le sezioni di Avaris, ma il museo era stato chiuso proprio il giorno in cui Gil era andato a Il Cairo, interrompendo un programma di lavoro pieno specificamente per vedere i tesori. Gil non era riuscito a tornare fino ad ora, e ora li aveva mancati perché Peter Donas lo aveva invitato per un tè. Gil non poteva crederci ed ancora non era del tutto sicuro di come fosse successo.

I tedeschi passarono; Gil e Peter entrarono nell'hotel. Immediatamente, Gil fu preso dalla stessa sensazione che aveva sperimentato ogni volta che era entrato in un Hilton – la sensazione che indubbiamente aveva qualcosa a che fare con quello che suo padre aveva detto una volta, "Bendatemi, mettetemi a sedere in un qualsiasi Hotel Hilton nel mondo, toglietemi le bende, e vi dirò che probabilmente non posso dirvi in che paese siamo, e tanto meno in che città". Il papà di Gil avrebbe potuto trovare più facile identificare il posto in questo Hilton, tuttavia, poiché c’era un decisa aura di Medio Oriente negli uomini che stavano in piedi intorno a loro nelle loro lunghe tuniche, copricapi e sandali.

Peter fece strada verso una piccola zona proprio fuori l'ingresso in cui avrebbero avuto una buona vista del traffico pedonale. Si sedette su una parte di un sedile circolare che circondava una tavolino, e Gil si unì a lui. Il tavolo era d'ottone e tipico dei lavorati d'ottone per cui l’Egitto era internazionalmente rinomato. Peter fece un cenno ad un cameriere in giacca d’orata e ordinò il tè. "Ora potrebbe essere più facile continuare una conversazione se conoscessi il vostro nome", disse lui, rivolgendo la sua attenzione completamente a Gil. Si sedette indietro nella sua sedia, incrociando le gambe così che la sua caviglia sinistra si inclinava sul suo ginocchio destro. Indossava stivali da equitazione neri, pantaloni neri, e una camicia a maniche corte. Aveva dei peli neri sugli avambracci e sulla parte posteriori delle sue grandi mani, ma Gil non poteva vederne sulla V di petto abbronzato visibile attraverso il colletto aperto. Gil si trovò a congetturare se Peter avesse così tanti peli sul suo petto o se ci fosse soltanto una distesa liscia di pelle nuda sopra i muscoli ben definiti fino al rigonfio cavallo dei pantaloni dell’uomo. Nessun dubbio che ci fossero dei muscoli. Gil poteva vederne la prova malgrado la camicia di Peter che dissimulava... qualcosa circa il modo in cui il materiale abbracciava amabilmente il bel corpo. "O la devo chiamare sig. X?" disse Peter.

Gil non poteva impedirsi di chiedersi se importasse soltanto a lui che Geraldine Fowler fosse stata una donna sposata con due bambini quando aveva gettato a monte tutto nella speranze di trovare più felicità con il nonno di Peter che l’aveva tradita scappando per sposare una donna con più soldi. Gil di illudeva nel pensare che Peter, o chiunque altro, dovesse preoccuparsene, così tanto tempo dopo il fatto? Perché diavolo Gil si preoccupava? Mentre era giusto essere un romantico disperato da bambino solitario... "Il mio nome è Gil, a proposito", si presentò lui in ritardo.

"Molto bene, quindi", disse Peter, e Gil poteva dire, appena detto a proposito, che neanche il nome Gil stava facendo squillare alcun campanello. "Che cosa porta Gil in Egitto? Una vacanza?" chiese Peter.

Gil era Gil Goldsands, venuto per aiutare Peter Donas, ed altri, nello scavo archeologico a Hierakonpolis. Gil era il nipote di Geraldine Fowler che era stata abbandonata da Frederic Donas. Certamente, Peter aveva sentito la storia. Di più, sebbene, Gil si stava sentendo un poco ridicolo per, forse, essere stato eccessivamente influenzato dal romanticismo di un amore non corrisposto e dal pathos di una donna che, dopo aver con successo implorato il marito a riprenderla indietro per il bene dei loro bambini, si era semplicemente stesa una mattina a Tebe ed era morta per un cuore spezzato. In ogni modo, il medico presente non aveva potuto offrire una diagnosi alternativa più adatta.
Probabilmente, Gil sarebbe stato ossessionato da altre cose (sport?) se non fosse stato un bambino unico, se non fosse stato un bambino unico solitario, se i suoi genitori non avessero divorziato quando era ancora così giovane, se il padre non avesse passato così tanto maledetto tempo agli scavi archeologici anziché con il figlio. Così com’era, il fascino della madre di Gil per il lontano racconto di un amore frustrato era in qualche modo arrivato a Gil come per osmosi.

Il tè arrivò e Peter lo versò, chiedendo a Gil se lo desiderasse "bianco", aggiungendo latte quando Gil fece un cenno col capo. Gil notò che Peter lo prese "nero". Inoltre, notò che Peter controllava la manipolazione del fragile servizio da tè senza apparente problema, malgrado la larghezza delle sue mani. C’era, infatti, una certa magnifica grazia nel modo in cui Peter alzò la sua tazza verso la bocca, sorseggiò, fece un'espressione di soddisfazione genuina, e guardò verso Gil da sopra l'orlo della tazza. In ogni caso, Gil pensò che Peter stesse guardando lui da sopra l'orlo della sua tazza. Questo era il motivo per cui fu così sconcertato quanto Peter bisbigliò.

"Affascinante, maledettamente affascinante!"

"Che cosa?" chiese Gil. Sembrò una risposta piuttosto inadeguata, ma era tutto quello che poteva fornire al momento.

Fu quando gli occhi di Gil infine si misero a fuoco direttamente sugli occhi di Peter che realizzò che il complimento di Peter non era stato diretto a lui (stupido Gil per avere anche pensato quello per un breve momento!) ma a qualcosa o a qualcuno direttamente dietro di Gil. "Mi volete scusare appena per un breve momento", disse Peter, alzandosi in piedi.

Gil girò lo sguardo per seguire la figura in ritirata di Peter, ed immediatamente individuò che cosa aveva attirato l'occhio del suo collega. Fuori ad un lato dell'ingresso, l'oggetto di occhiate inquisitive, anche dai membri della popolazione locale, era un arabo che indossava un guanto di cuoio pesante che copriva la sua mano sinistra e molto del suo avambraccio anteriore. Un falco era appollaiato saldamente sul pugno serrato dell'uomo. C’erano strisce di cuoio fissate alle zampe dell'uccello, trattenendolo al guanto. Il falco era incappucciato con una protezione di cuoio colorato che nascondeva interamente la sua testa tranne il becco tagliente. Il cappuccio era di un arancio luminoso, con un piumaggio di piume di collo di pollo guarnite con lane colorate e legate strettamente insieme con legacci di fine ottone fissato sulla parte superiore. Gil guardò Peter avvicinarsi all'uomo. Gil era più che un poco piccato di essere stato abbandonato per qualche uccello da caccia. Inoltre, era, in retrospettiva, un poco imbarazzata di aver realmente pensato che il “Affascinante, maledettamente affascinante!” di Peter fosse riferito a Gil. Quanto stupido da parte di Gil sbagliarsi su quello! Avrebbe dovuto sapere meglio, perché certamente non era affascinante, e tanto meno affascinante, maledettamente affascinante. Oh, aveva tutti gli ingredienti adatti, ma in qualche modo non si erano mescolati insieme, persino ora che era più magro del solito, in un modo che lui, personalmente, considerava affascinante. Va bene attraente, sì, particolarmente ora che era considerevolmente più magro. Ma non affascinante. Certamente, non affascinante, maledettamente affascinante. Era assalito da emozioni contrastanti: la gelosia che quell'uccello avesse attirato un complimento che lui non poteva attirare; la gratitudine che il commento di Peter non fosse diretto a lui in modo che Gil era salvo dall'imbarazzo di dire a Peter che quell'adulazione non lo avrebbe portato in nessun posto.

Sorseggiò il suo tè, sempre più disturbato dall’essere stato abbandonato. Lo trovava probabilmente tipico di un uomo dei Donas (qualcosa nei geni) di essere preso dal fascino di uno sport crudele come la falconeria. Oh, Peter poteva senza dubbio fornire tutte le spiegazioni per il suo interesse e per l'esistenza di un passatempo così barbarico. La gente era sempre molto brava a giustificare qualcosa che apprezzavano. Gil, che avevano fatto molti scavi sul campo in paesi medio-orientali e, pertanto, era venuto a conoscenza della popolarità continua del sanguinoso sport fra l’aristocrazia, aveva sentito tutte quelle giustificazioni. Nessun di loro reggeva per quanto importava a lui! Non era semplicemente giusto prendere un uccello libero come il vento ed addestrarlo ad uccidere per il piacere dell'uomo, legare le sue zampette, mettere un cappuccio sopra la sua testa e trasportarlo in giro su un pugno in un hotel situato nel centro del Cairo. L'uccello apparteneva alla libertà del cielo, in cui Dio aveva inteso dovesse essere, e quello era esattamente quello che Gil disse a Peter quando questo ultimo infine si degnò di tornare alla tazza di tè diventata fredda in sua assenza.

Peter rese furioso Gil semplicemente ignorando il commento, dimettendolo con un gesto leggero della mano, come se fosse venuto ovviamente da qualcuno che non potesse possibilmente conoscere niente della materia. "Uccello spettacolare!" fu quello che disse, aggiungendo tè caldo al liquido freddo nella sua tazza. "Un pellegrino femmina, oserei dire, costata al suo proprietario un braccio e un piede. Appartiene ad uno degli sceicchi del sud. Lo Sceicco Abdul Jerada".

Gil non poteva curarsene di meno, salvo che qualcuno avrebbe dovuto mettere la testa dello sceicco Jerada in un cappuccio, legare i suoi piedi e trasportarlo in giro per il Nile Hilton per vedere se gli piaceva. Qualcuno avrebbe dovuto fare la stessa cosa all'uomo che sedeva di fronte a Gil. "E’ barbarico!" disse fermamente Gil, versandosi dell’altro tè. "E’ qualcosa che arriva diritto dal Medio Evo".

"E’ uno sport molto antico," ricordò Peter, come ad insinuare che vecchio, puramente per definizione, era buono.

"Così era bruciare le streghe", informò Gil. "Non credete che quella pratica prosperi ancora, non è vero?"

"No, beh..." mormorò Peter, spiazzato, come se lui e Gil entrambi sapessero che uno realmente non era paragonabile con l'altro. Ci fu un momento di silenzio assoluto.
"Praticate molto la falconeria in Inghilterra, Sig. Donas?" chiese Gil, incapace di lasciare da parte l’argomento. Gli dava soddisfazione sapere che, proprio come aveva sempre sospettato, Peter Donas aveva un lato un po’ perverso e sadico, proprio come quello che Frederic Donas doveva aver avuto.

"No", disse Peter, ovviamente deluso. "L’ho sempre desiderato, ma ci vuole molto tempo, sapete, e non sembro mai essere in Inghilterra abbastanza a lungo per selezionare un uccello e fargli fare tutti i passi adeguati".

"Ma se aveste il tempo?" domandò Gil, premendo. Poteva vedere Peter ora, a dilettarsi a strappare gli uccelli appena nati e indifesi dai loro nidi, proprio come il nonno del Peter aveva strappato una madre dal suo.

"Dubito che mai avrei il tempo per un falco pellegrino come quello", rispose Peter, annuendo col capo in direzione dell'uomo che ancora stava in attesa (per lo sceicco Jerada?). Gil aveva guardato Peter per tutta la durata della loro rinnovata conversazione; Peter aveva spostato avanti e indietro il suo sguardo da Gil a quel maledetto uccello. Perché Peter non aveva portato la sig.na Pellegrino al tè? Era ovviamente più interessato all'uccello, in quel momento, di quanto era, e probabilmente mai sarebbe stato, in Gil. Pensare che Gil era uscito dal museo per questo! “Conosco poche persone che possono fare giustizia ad un uccello superbo come quello", continuò Peter, come se Gil fosse interessato. "E’ una questione di individuazione della caccia adatta, per esempio. I falchi pellegrini volano per piccoli giochi come la pernice ed il gallo cedrone". Sì, Gil lo sapeva. "Inoltre", continuò Peter, "e questa è la parte realmente difficile, in questi giorni ed epoca di spazi abitativi ristretti, l’accesso a qualsiasi posto da mille a tre mila acri di terra aperta è dura da ottenere".

Gil pensò che ne aveva abbastanza anche prima che Peter aggiungesse qualcosa su un cane – un pointer o un setter – che era una necessità per la caccia col falco al gallo cedrone. "Devo realmente andare, Sig. Donas", disse Gil, mettendo molto delicatamente giù la sua tazza da tè ed facendo un sorriso smagliante che, sperava, fosse solo un poco più caldo di un iceberg. "E’ stato affascinante parlare di uccelli con lei, ma realmente ho altre cose da fare, poiché me ne andrò dopo domani sulla Osiris per un viaggio sul Nilo". Avrebbe potuto essere più specifico e dire verso Idfu e poi a Hierakonpolis, ma non lo fece, domandandosi perché. Sarebbe stato il momento perfetto per mettere fine a questa mascherata in corso.

"State progettando di infilarci dei pasti da qualche parte, non è vero?" chiese Peter. Gil non poteva vedere cosa c’entrasse questo. "Così, perché non mi lasciate portarvi a cena questa sera?" suggerì Peter. Gil pensò che lui fosse abbastanza dannatamente audace - e anche troppo sicuro di sè. Non sembrava esserci nessun apparente senso o motivo per l'invito, a meno che Peter non volesse rimorchiare qualcuno per il sesso. In caso affermativo, Peter avrebbe dovuto essere capace di vedere chiaramente come Gil che loro due erano differenti quanto la notte dal giorno. Non soltanto quello, ma poiché Peter aveva chiesto a Gil di prendere il tè con lui ed aveva speso tutto il tempo lanciando sguardi amorosi alle piume macchiate del seno di un uccello femmina, Gil poteva solo immaginare che cosa sarebbe stato provare a tenere l'attenzione di Peter per la durata di un pasto intero. "Conosco un posto in città che serve un hamama semplicemente eccellente", disse Peter. L’hamama era il piccione. La loro conversazione si era spostata dalla fenice verso il falco fino al piccione. Almeno Peter era costante. "Sapete che cosa è l’hamama, Gil?" chiese Peter. Sì, Gil sapeva che cosa era l’hamama. Sì, Gil sapeva anche che cosa erano i gambari – gamberi - e firakh – pollo - e il gamoosa – carne di bufalo d’acqua. "E’ piccione" disse Peter, ovviamente incapace di leggere l'affermazione mentale di Gil. "Molto popolare in Egitto. Allevato dappertutto lungo la valle del Nilo. Guardate quando passerete le case nel vostro viaggio sul Nilo, e vedrete sicuramente le grandi strutture a cupola di terracotta fissate ad esse. Sono messe là espressamente per allevare i piccioni successivamente cotti solitamente a fuoco basso".

"Questo suona squisito", disse Gil. In realtà, Gil aveva assaggiato l’hamama, e lo aveva gradito. "Tuttavia, mi spiace..."

"Non sapete cosa vi perdete”, interruppe Peter. Gil ebbe la chiara impressione che, come se Peter pensasse a se stesso come un regalo di Dio per ogni potenziale cliente di una prostituta, l’insinuazione di Peter su Gil che si perdeva qualcosa avesse più a che fare con la compagnia di Peter che con la cucina egiziana. Realmente, l'uomo era, come Gil aveva sempre sospettato che sarebbe stato, insopportabile - con o senza lo scandalo di Frederic Donas / Geraldine Fowler come contesto!

"Lasciatemi indovinare", disse Gil, "non potete semplicemente sopportare di vedere qualcuno che non sia un convertito alla falconeria, ed avete progettato un’intera sera a fare proseliti mangiando l’hamama e il moz bi-laban". Sperò che Peter avesse notato che Gil poteva buttare là una parola araba o due da solo. Mozbi-laban era una bevanda locale a base di frutta fatta mescolando le banane con il latte e lo zucchero. Infatti, spesso diventata un pasto in sè.

"Non una sola parola sulla falconeria", promise Peter.

"D’accordo", rispose Gil, pensando quanto divertente sarebbe stato per Peter Donas arrivare a Hierakonpolis e scoprire che un presunto semplice turista, a cui aveva offerto da bere e portato a cena possibilmente per ottenere del sesso al Cairo, era nient’altro che il nipote di Geraldine Fowler e socio di Peter nello scavo a Hierakonpolis.

"Grande!" disse Peter. "Alle otto circa?"

"La incontrerò, qui, all'ingresso" gli disse Gil. "Fino ad allora...."

Peter si alzò quando lo fece Gil, piegandosi leggermente per rimettere la sua tazza da tè sul suo piattino. "Attenderò con ansia quel momento”, disse lui.

Con un cenno del capo allontanandosi, Gil lo lasciò e si diresse attraverso l'ingresso verso l’ascensore. Non vedeva l’ora che si rincontrassero a Hierakonpolis e.... Gil era così preso nei suoi pensieri che quasi si scontrò con un arabo alto e dalla pelle scura che indossava una fluttuante tunica bianco. "Mi spiace", si scusò l'arabo in un inglese piacevolmente modulato. Il fatto che Gil fosse un americano doveva essere evidente come un pollice indirizzato. L'arabo era ovviamente gentile con uno straniero, poiché era chiaro a tutti, Gil incluso, che il loro quasi scontro era stato interamente colpa di Gil.

"Sono io quello che dovrebbe chiedere scusa" disse Gil. "Avrei dovuto prestare più attenzione a dove stavo andando".

L'arabo aveva occhi vellutati scuri, dei baffi e una barba tagliata in modo preciso. Aveva probabilmente poco più di trenta anni... ed alto quanto Gil – in realtà, un poco più alto. Gil avrebbe dovuto andare a cena con qualcuno così esoticamente affascinante! Gil era, dopo tutto, in Egitto - terra di sceicchi del deserto e tende dei beduini con pavimenti coperti da tappeti tunisini – l’Egitto non era noto per le sue coperte - e le pareti con appesi degli arazzi. No, Gil doveva ritrovarsi con un appuntamento per una sera con un inglese che....

Improvvisamente, si rese conto che stava ancora in piedi nel mezzo dell'ingresso dell'hotel, faccia a faccia con l'attraente arabo. Non poteva immaginare che cosa gli stesse succedendo. Certamente non poté non domandarsi cosa stesse pensando l’arabo, anche se il leggero sollevarsi degli angoli della bocca piena dell'affascinante uomo indicava il suo divertimento. Gil sperò che il suo sogno ad occhi aperti fosse durato pochi secondi anziché i minuti che sembrava ora. "Sono realmente dispiaciuto", disse Gil, sinceramente. L'arabo si inchinò leggermente mentre Gil infine metteva insieme abbastanza movimento per dirigersi, ancora una volta, verso gli ascensori. Naturalmente, gli ascensori erano occupati fermi ad ogni piano ma non a quello dove aspettava Gil, apparentemente risoluti a lasciare Gil in piedi là per sempre. La schiena rivolta verso l'ingresso, immaginò che l'arabo stesse ancora probabilmente pensando divertito sul perché i turisti stranieri non potessero almeno tenere gli occhi aperti. Gil si domandò se Peter avesse visto il quasi scontro. In caso affermativo, Peter probabilmente aveva pensato che fosse stato causato dall'eccessivo eccitamento di Gil a cui era stato chiesto di uscire a cena. Le porte dell’ascensore – finalmente – si aprirono su uno scompartimento vuoto. Gil fece un passo all'interno, girandosi e premendo il tasto per il decimo piano. Appena prima che le porte si chiudessero davanti a lui, arrischiò un'occhiata affrettata fuori nell'ingresso. Fu definitivamente deluso che né l'arabo né Peter sembrassero del tutto interessati a Gil in ascensore. Erano insieme davanti all'uomo con il falco pellegrino. Era abbastanza evidente dalle espressioni rapite, tutto intorno, che non stavano discutendo di Gil ma piuttosto di un disgustoso sport sanguinario.

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Il segreto per schiudere le porte del piacere

Lei lo detesta per i suoi modi rozzi e volgari. Lui perché è troppo altezzosa. Ma la passione che li travolge è inarrestabile.

Inghilterra, 1395.

La bella Lady Ileana è costretta a sposarsi. Sua madre, che ben conosce cosa significhi vivere accanto a un uomo violento, cerca di proteggerla e, grazie alle sue conoscenze altolocate, combina delle nozze a pagamento. Purtroppo il prescelto è il signorotto scozzese Duncan, un ragazzo alto, grosso e rozzo, che ha dimenticato ogni regola di decoro e buone maniere. Per Ileana il matrimonio è un incubo e l’idea della prima notte lo è ancora di più. Lui le si presenta ubriaco e sporco e lei per “salvarsi” indossa addirittura una cintura di castità... Ma poi, nei giorni successivi, si accorge che quell’uomo tanto grezzo è in realtà generoso, coraggioso e che, suo malgrado, l’attrae come nemmeno poteva immaginare. Le sue carezze e i suoi baci sono dolci e ardenti al tempo stesso. E sono carichi di promesse che parlano d’amore e di estasi. La passione che li travolge è irresistibile e cresce rapida come una marea. Un giorno, inaspettatamente, arriva al castello la madre di Ileana che, dopo essere stata picchiata per l’ennesima volta dal perfido Lord Greenweld, ha deciso di fuggire. L’uomo però l’ha inseguita ed è pronto a tutto: infatti ora vuole impossessarsi del castello di Duncan e ferisce Ileana...

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LETTORI  &   EDITORI    :     IL PUNTO D'INCONTRO

READERS   &   PUBLISHERS     :    THE MEETING POINT


 

A partire da oggi, il blog Isn’t It Romantic? mette a disposizione un Punto d’Incontro tra lettori e case editrici, cioè uno spazio che potrà essere liberamente usato da entrambi come punto di incontro per una discussione seria e costruttiva.
Le lettrici potranno commentare, fare richieste, esporre le loro critiche, e così via.
Gli editori potranno rispondere, e fornire spiegazioni e informazioni alle lettrici, nelle modalità e nei tempi che preferiranno. Non possiamo, naturalmente, garantire che tutti risponderanno, e sempre: ma speriamo proprio che interverranno spesso ! ^_^
 
Per garantire l’assoluta neutralità, le bloggers non interverranno nella discussione, non si faranno cioè portavoci di idee o richieste di nessuno, e si limiteranno a garantire il buon funzionamento del meccanismo.
 
Ai rappresentanti delle case editrici:

-     offriamo la possibilità non solo di commentare e rispondere alle domande delle lettrici, ma anche pubblicare dei posts veri e propri, cioè degli articoli, completi di immagini etc., su temi specifici di loro scelta. Questo però richiederà una serie di interventi tecnici, per cui nel caso li preghiamo di contattarci preventivamente tramite email.

Ai lettori:

-          ogni richiesta, domanda, osservazione dei lettori deve venire espresso come commento a questo post ( le istruzioni su come lasciare un commento sono nel menù di sinistra )
 
-          tutte le richieste, domande, osservazioni dovranno essere firmati, o tramite registrazione su www.splinder.com , o per lo meno indicando il nome/pseudonimo alla fine del commento. L'owner e le administrators del blog (Naan, MarchRose ed Elisa) cancelleranno i commenti anonimi, così come quelli offensivi, ripetitivi o non pertinenti.
 
-          a tutti i commenti viene garantita una visibilità minima di un mese, dopo di che, in funzione del numero di commenti, gli interventi più vecchi saranno progressivamente cancellati per far spazio a quelli nuovi.
 
-          non siamo un sito di petizioni ! quindi evitate, ad esempio, di chiedere a decine la traduzione di uno stesso romanzo. Per queste iniziative ci sono siti appositi, riferitevi a quelli.
 
E adesso… buona discussione !!
 
 
 
 
From today on, Isn’t It Romantic offers to both readers and publishers a discussion corner, I .e. a webspace which can be freely used as a Meeting Point for a serious and constructive discussion.
Readers can comment, ask questions, express their approval or criticism, and so on.
Publishers can answer to readers, and give them information and explanations, as often as they will decide to do, and in the way of their choice. Of course, we cannot grant that all publishers will always answer to all question: but we do hope to see them often here ! ^_^
 
In order to grant a neutral ground to both readers and publishers, we bloggers will not enter the discussion, in other words we will not support anybody’s ideas or requests, and we’ll merely take care to keep the Meeting Point running smoothly.
 
To publishers:

-      we offer the opportunity not only to comment and reply to readers' questions, but also to publish on our blog full-length posts, i.e. articles on specific subjects of their own choice, completed with pictures and so on. Only be aware of the fact that in order to do that some of the blog's technical settings have to be re-adjusted, so in case they're interested they are kindly requested to contact us with some advance by email.

To readers :
 
-          any request, question or remark has to be written as a “comment” to this post ( on the left menu of this webpage you canfind instructions about how to leave a comment )
 
-          all requests, questions or remarks must be signed, or by registering at www.splinder.com , or at least by including name and/or nickname at the end of your message. The blog’s owner and administrators ( Naan, MarchRose and Elisa ) will erase all anonymous comments, as well as insulting, off-topic or duplicate comments.
 
-          we grant to all comments wil be displayed for  one month at the very least; after that, older comments might be erased to give room to the new ones, depending upon the total amount of comments.
 
-          This is not a petitions‘ corner ! so pls avoid to send us dozens of identical requests to have, for instance, the same novel translated. There are specific websites for petitions, pls refer to them.
 
 
And now… enjoy your talk !

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Virginia Henley

La spada e il gelsomino

(by Sharon Spiak)

 

proposta da andreina65

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Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

Untitled

Kathleen Nance

The Seeker

(artist unknown)

 

proposta da MarchRose

Vote for our June Best Cover contest !
Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

Untitled

Kathleen Nance

The Warrior

(artist unknown)

 

proposta da naan

Vote for our June Best Cover contest !
Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

Untitled

Elizabeth Elliott

Bella e Innocente

(by John Ennis)

 

proposta da andreina65

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Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

Untitled

Iris Johansen

Il conquistatore normanno

(by pino daeni)

 

proposta da andreina65

Vote for our June Best Cover contest !
Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

Untitled

Heather Graham

Il signore dei Lupi

(by victor gadino)

 

proposta da naan

Vote for our June Best Cover contest !
Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

Untitled

Mary Balogh

Tangled

(artist unknown)

 

proposta da MarchRose

Vote for our June Best Cover contest !
Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

Untitled

Johanna Lindsey

Amore selvaggio
(Savage Thunder)

(by Elaine Duillo)

 

proposta da naan

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Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

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Johanna Linsey

Non sfidare il cuore
(Defy not the heart)

(by Elaine Duillo)

 

proposta da elisarolle

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Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

Untitled

Johanna Lindsey

Gentle Rogue

(by Elaine Duillo)

 

proposta da naan

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Partecipate al sondaggio sulla Miglior Copertina per il mese di Giugno!

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Partecipate al giveaway di Mariangela Camocardi, avete tempo per lasciare un commento fino al 9 novembre, quindi registratevi al sito se ancora non lo avete fatto e buona fortuna!

 

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