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Home | In the Spotilight/Sotto i riflettori: Elisa Barbaro

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In the Spotilight/Sotto i riflettori: Elisa Barbaro

BIOGRAFIA

Nata a Messina e cresciuta in una famiglia tradizionale siciliana, è l'ultima di tre sorelle. La sua passione sono i viaggi.

Alla scrittura approda per caso, quando partecipa a un concorso letterario di racconti brevi a tema “L’Irlanda nel cuore” e vince il primo premio.
Dopo due anni ci riprova, ma per paura che la giuria, leggendo il suo nome non voglia far vincere due volte la stessa persona, dona il suo racconto a un'amica. Anche questa volta la sua storia vince il primo premio.

Dai racconti al primo libro il passo è breve. Questa volta però l’ambientazione non è più l’Irlanda, ma la sua amata e profumata Sicilia che esplode in tutto il suo fascino.  

 

 

 

IL ROMANZO: IL SUO NOME ERA APRILE-YOUCANPRINT (2014)

Tommaso, il protagonista del romanzo, narra in prima persona e con tono umoristico la ricerca della donna della sua vita.
Le divertenti avventure che si susseguono hanno come sfondo la Sicilia e come protagoniste le donne: esaltate nella loro sensualità, amate e venerate in egual misura.
Intorno a Tommaso i paesani che parlano il dialetto, la famiglia tradizionale siciliana e gli amici che lo accompagnano da sempre.
La ricerca di una ragazza sconosciuta incontrata in aeroporto lo porterà a trovare finalmente l’amore vero. 
Un affresco originale dei siciliani, dipinti con i loro pregi e difetti, raccontati con leggero umorismo.

 

CURIOSITA'
Il suo nome era Aprile nasce ascoltando i divertenti racconti d'infanzia e le delusioni amorose di un uomo messinese. Presto, però, i personaggi prendono vita propria e la storia si scrive da sè. Alcune delle situazioni narrate, inerenti il periodo adolescenziale sono invece accadute all’autrice del libro.

 

ESTRATTO

Dopo una buona mezz’ora di attesa arrivò l’autobus. I sedili erano tutti occupati, rimasi in piedi vicino alla macchinetta obliteratrice. Seduta di fronte a me, una giovane donna mi osservava con insistenza. 
Doveva essere sulla trentina, indossava un attillato tailleur nero con una gonna poco sopra il ginocchio, uno spacco laterale mostrava una coscia abbronzata. Le lunghe gambe snelle erano accavallate provocatoriamente. 
I miei occhi finirono sul suo piede destro che dondolava stuzzicante, fasciato da un sandalo con un tacco a spillo vertiginoso. Il viso era perfettamente truccato, come se dovesse andare a una festa o a un incontro importante. Il sole illuminava i riflessi nocciola dei lunghi capelli che si poggiavano morbidi sulle sue spalle.
Non ci conoscevamo, ne ero certo, forse mi guardava perché le piacevo e aveva voglia di guardarmi, la legge non vieta a nessuno di fissare un’altra persona, la buona educazione sì.
Tornai a sbirciare fuori dal finestrino in cerca di punti di riferimento per capire quando chiamare la fermata. 
“Ti sei perso?” La sua voce era morbida e calda. Mi voltai e la vidi fissarmi. 
Come scelgono le donne la loro preda? Come fanno a capire quale, tra mille uomini, è quello che stanno cercando? 
Non era mai accaduto che una donna più grande di me prendesse l’iniziativa in maniera così sfacciata. 
Voleva me e glielo si leggeva negli occhi color muschio, sulla bocca carnosa, su quel piede che continuava a dondolare ritmicamente come il pendolo di un ipnotizzatore. 
“No, non credo. Devo andare all’università.” Mi atteggiai.
“All’università?” Sorrise mostrando dei perfetti denti bianchissimi. Non attese la risposta e incalzò con un’altra domanda. “Quanti anni hai?”
“Diciannove.” Avrei potuto mentire e darmi qualche anno di più, ma ormai avevo detto la verità. Sicuramente il suo interesse sarebbe scemato.
“Oh, diciannove?!” Ripeté in tono canzonatorio.
Gli ormoni nell’aria volteggiavano freneticamente, la chimica stava svolgendo il suo compito. La sua voce, il suo corpo, i suoi gesti, il suo respiro, la sua risata, tutto era erotico in lei.
“E in quale facoltà sei iscritto?”
“Architettura.” Risposi senza precisare che ancora non lo ero. 
“Architettura.” Ripeté sollevando le sopracciglia, con finto tono stupito. “E dimmi: stai andando lì con quest’autobus?”
“Sì.” Iniziai a dubitare delle mie stesse risposte.
“Come ti chiami?” Continuò.
“Tom.”
“Uhm! Tom. Come Tom & Jerry, quelli dei cartoni animati?”
Quella conversazione iniziava a irritarmi. Perché si stava prendendo gioco di me? Mi sentii leggermente in soggezione.
“Tu come ti chiami?” Passai all’attacco.
“Greta. Come Greta Garbo, l’attrice svedese. La conosci? Forse sei troppo giovane.” 
“La conosco.” Mentii. “Dove sei diretta?” 
“A casa. Ti va di venire con me o fai tardi all’università?”
Avevo sentito bene? Mi stava invitando a casa sua? Cosa dovevo rispondere? Dovevo cogliere al volo l’occasione? E se fosse stata una pazza serial-killer? O una tipa che adesca ragazzini sugli autobus per poi derubarli? 
Mia nonna mi aveva sempre detto di non accettare niente dagli sconosciuti, di stare attento perché in un attimo ti rapiscono e ti portano via, ti drogano e non ricordi più chi sei e ti ritrovi in un altro Paese coinvolto in un traffico di organi umani. 
Ma non ero più un ragazzino.
“Che lavoro fai?” Chiesi senza mostrare alcun tatto, procrastinando la mia risposta.
“Lavoro all’università.”
La guardai diffidente. Mi stava mettendo alla prova? Forse le avevo dato modo di dubitare di me. Cosa avevo detto di sbagliato? Intuì le mie perplessità e chiarì. “Lavoro alla facoltà di medicina. L’università è dall’altro lato della città. Quest’autobus va nella zona sud e lì non ci sono segreterie universitarie.”
Stavo andando nella direzione opposta a quella giusta. 
L’umiliazione era appena iniziata. 
“A Messina non c’è la facoltà di architettura. Si trova in un’altra città e per andarci devi prendere un traghetto, caro Tom. Se davvero questo è il tuo nome. Io scendo qui.” 
Scese dall’autobus. La inseguii. 
Avevo fatto la figura del fanfarone che si voleva dare arie, di quello che inventava storie per far colpo sulle ragazze. 
La fermai sul marciapiede toccandole un braccio, si voltò guardandomi contrariata da quel gesto confidenziale. Provai a giustificarmi dicendole la verità su come avessi preso il numero di autobus esatto, ma dal lato sbagliato della strada, sul fatto che stavo andando a informarmi e che non sapevo neppure dove fosse l’università. Le mostrai perfino la carta d’identità per provare la mia età e come mi chiamassi.
“Tom, ti credo, lascia stare. Si vede che sei un bravo ragazzo. Vuoi venire a prendere un caffè?”
“A casa tua?” Mi mostrai intraprendente ricordandole l’invito fattomi in precedenza.
“Non perdi tempo.”
“Io? Veramente me lo hai proposto tu, sull’autobus.”
“Scherzo! Vieni. Abbiamo parlato già troppo per i miei gusti. Seguimi.” 
Si voltò e iniziò a camminare svelta davanti a me, dondolando sui tacchi alti.
Vederla camminare era paradisiaco: il suo corpo era il quadro della perfezione fisica, dell’armonia delle proporzioni, un dono che madre natura dà a poche donne privilegiate.
Non osai chiedere perché la dovessi seguire e non potevo camminarle accanto. 
Faceva tutto parte del copione che stavamo recitando? Eravamo attori? 
Non lo so, ma mi piaceva il ruolo che mi aveva affidato.
Entrò in una palazzina, salì le scale fino al primo piano e aprì uno dei due portoni che si affacciavano sul pianerottolo. Nessuna targa indicava il cognome, mi lasciò entrare e richiuse la porta dietro di me. 
Non ci furono preliminari, non riuscii neppure a fare un passo in avanti. M’inchiodò al portone spingendomi con il suo corpo. I suoi occhi erano fissi nei miei. Le sue mani mi spogliarono, mi accarezzarono tra le gambe e trovarono quello che stavano cercando. 
Volevo spogliarla, me lo impedì. Mise le braccia attorno al mio collo e con un balzo me la trovai a cavalcioni. Dovetti sostenerla con due mani per non cadere entrambi sul pavimento. 
Nessuno dei due parlò, solo gemiti soffocati. Appena finì, si allontanò lasciandomi senza forze, appoggiato al portone. 
Si accese una sigaretta. “Puoi andare. Se ti va ci vediamo domani pomeriggio. Alle 5, qui da me.”
Avevo passato il test di ammissione. Ero stato scelto.
“È stato bello, ma non so se posso venire domani. Non ho ancora la patente e il pullman per tornare in paese, talvolta, in estate, salta qualche corsa.” Mi sentivo un ragazzino mortificato. Pensavo non avrebbe voluto più vedermi.
“Paese? Ma di dove sei?” Rise, non mi lasciò rispondere e continuò. “Meglio così. Vengo io aprenderti.” 
Mio fratello non avrebbe mai creduto a quella storia e non ci avrei creduto nemmeno io se non avessi frequentato Greta per due mesi, facendole 45 telefonate, presentandomi a 50 appuntamenti e assommando 104 rapporti sessuali.
Quello che sapevo di lei era che aveva venticinque anni, almeno così mi disse, che vestiva bene e si spogliava ancora meglio. 
Quando le ponevo domande personali, si limitava a cambiare argomento per non rispondere.

 

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