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La cipria: alleata della donna da millenni

Non so voi, ma la sottoscritta, dopo aver  distribuito sul viso la crema nutriente, sulla crema aggiunto il fondo tinta, sul fondo tinta passato un paio di strisciate di fard e subito dopo, sulle palpebre, la matita kajal, raramente resta contenta del risultato: lo specchio rimanda l’immagine di una donna con una coupe-rose recidiva e occhiaie invadenti, insomma,  vorrei spesso essere altra e altrove. Più spesso di quanto dovrei (eppure non ho altri sintomi evidenti di rimbambimento), capita che nella fretta di avviarmi al lavoro continuo a pensare  a come migliorare il mio aspetto per poi accorgermi di aver dimenticato di usare lo strumento che più di tutti può risollevare la mia autostima estetica: la cipria. Ma come posso  dimenticare la taumaturgica cipria? L’oggetto sul quale ripongo le speranze quando il make-up non vuole fare il suo dovere o per dispetto mi si sbrodola?  Che bello, allora, pensare che non tutto è perduto, che ho ancora una speranza di essere presentabile, di ingannare qualche ruga, di compattare porzioni di epidermide che vorrebbero “mollare” sulla parte più esposta, il viso.  Insomma, l’ultima e preziosa riserva prima di sentirmi una completa ciofeca.
Amica cipria, da dove vieni? Che strade hai percorso? Con chi ti sei accompagnata?
Numerosi fonti concordano nel sostenere che il nome “cipria” derivi da Cipro, isola del Mediterraneo del sud e luogo di origine di Venere, dea dell’Amore e per antonomasia, della bellezza. La scoperta, rinvenuta a Pyrgos sul versante meridionale di Mevorack dei resti di un impianto industriale costituito da un vasto edificio di oltre 4.000 mq. destinato alla produzione di profumi e prodotti di bellezza risalenti a circa il 1800 A.C., testimonia quanto la cura del corpo fosse diffusa fin dall’antichità. Una curiosità:  l’impianto, venuto parzialmente alla luce ad opera di campagne di scavo della Missione Archeologica Italiana del Consiglio Nazionale delle Ricerche, è giunto a noi in condizioni simili a Pompei. Si è infatti ben conservato perché sepolto sotto una coltre di ceneri  a causa di un terremoto che innestò un vasto incendio di un vicino deposito di olio d’oliva.
La nascita della cipria si perde nella notte dei tempi perché l’uomo, come la donna, ha sempre avuto bisogno di trasformare la propria immagine per i più svariati motivi: dalla caccia, alla conquista amorosa; dal desiderio di incutere timore ai nemici, al mimetizzarsi. Del resto, basta andare con la mente alle preistoriche pitture rupestri  rinvenute sia in Europa che  in Africa per rendersi conto di quanto fosse diffuso l’uso di intervenire sul corpo.
La cipria non è un elemento  isolato della cosmesi poiché fin dai tempi antichi  è stata utilizzata in una filiera di prodotti che via via nei secoli hanno scandito il gusto e le scoperte nella valorizzazione della bellezza.

                          
Dall’antichità e fino al diciannovesimo secolo, salvo qualche breve periodo, la pelle chiara nelle donne era considerato il top del fascino muliebre. Coloro che non l’avevano in natura, come le Etiopi per esempio, cercavano di sbiancarsi la pelle con applicazioni di gesso. Sono state date varie spiegazioni sulla secolare predilezione per la pelle chiara, alcune delle quali più convincenti di altre. Si può comprendere, infatti, che le donne dell’antico Egitto, per differenziarsi dagli uomini che facendo attività all’aperto rafforzavano la loro virilità e abbrunivano la pelle, cercassero di  sembrare fragili, diafane, delicate. Ecco allora che per raggiungere il risultato si sottoponevano a trattamenti di bellezza per ottenere una carnagione madreperlacea altamente apprezzata nelle classi elevate. Elemento insostituibile e ultimo tocco del trucco era il talak (paragonabile al nostro talco) composto da farina di fave e gesso polverizzate che veniva spazzolato sul viso con pennelli che costituivano l’indispensabile complemento di cassette del trucco di cui esistono esemplari sia nel museo del Cairo che tra i reperti di Pompei.
 
Erodoto  racconta che le donne greche, seconde dopo le etrusche in fatto di emancipazione  (queste ultime si erano conquistate, tra l’altro, il privilegio di conservare il nome di famiglia e di potersi sdraiare assieme al marito per i pasti giornalieri e nei ricevimenti) avevano gran cura del corpo e si truccavano abitualmente. Per il viso usavano un prototipo di cipria  chiamato psymuthion composto da polveri bianche come calce, gesso, argilla bianca, il bianco di biacca e il carbonato di piombo con un tocco di terra di Selinunte che conferiva lucentezza al viso.  Secondo Plinio il Vecchio, invece, le  donne di Pompei  disponevano di vari tipi di cipria che avevano  per base il caolino, scagliola, terra di Creta ma anche escrementi di coccodrillo. Il prodotto più in voga tre le romane era invece il lomentum che includeva farina di fave e gesso.
Senofonte cita un certo Isomaco che rimproverò la moglie poichè “era tutta imbellettata con molto cerone per sembrare ancor più bianca di quanto non fosse e anche con molta cipria per apparire ancor più rosea di quanto in realtà non fosse”.  Di tutt’altro parere era invece Plauto per il quale “una donna senza trucco è come un cibo senza sale”.
Tra  l’ 11°  e 12°  secolo una importante scuola medica  operativa nella  città di Salerno divenne la più antica sede universitaria d’Europa, titolo erroneamente attribuito a Bologna la cui nascita avvenne invece alcuni anni più tardi. Alcuni fra i più emeriti studiosi dell’epoca furono attratti dagli studi di Salerno ed è proprio qui che si formò la prima farmacopea riconosciuta che annovera l’identificazione di 150 piante medicinali e officinali, usati sia in medicina che nella cosmesi. La parola “cosmetico”, dal greco kosm tickos significa “che ha il potere di sistemare” o anche di “abile nel decorare”. La particolarità dell’università di Salerno stava nella direzione affidata ad una donna, giunta a noi con il nome di Trotula. Tale docente risulta essere stata una donna-medico di elevatissima  cultura che si occupò sia di malattie che di igiene e bellezza. A lei si deve il trattato conosciuto con il nome di De Ornatu  in cui veniva insegnato alle donne come eliminare le rughe  con vari tipi di cipria, come rendere i denti più bianchi con apposite poltiglie di erbe,  come evitare le borse sotto gli occhi o tingere i capelli di biondo. Per schiarire il viso, Trotula suggeriva di triturare della alghe con bianco d’uovo, prezzemolo e polvere di  allume. Alcuni ingredienti prescritti  da Trotula, ad esempio l’acqua di rose, canfora e crusca, sono prodotti validi e usati anche ai giorni nostri. Dall’impulso di Trotula agli studi, che si avvaleva anche delle scoperte di studiosi arabi divulgate con le traduzioni di Gherardo da Cremona, si sviluppò nel medioevo una fiorente industria cosmetica.
Del resto, sull’importanza delle cure estetiche concordavano anche i trattati di medicina del Rinascimento e Barocco. In quegli anni lo scienziato svizzero Theophrast Baumbast, meglio conosciuto come Paracelso, diede un notevole contributo all’incremento di un filone di studi che fondava la sua ragion d’essere sull’esperienza diretta della natura. Il cosiddetto medico “spagirico”  (antesignano della medicina omeopatica, senza corollario di magia), doveva essere, oltre che medico, chirurgo, alchimista, scienziato e astrologo. Furono stampate con grande fervore opere dove si consigliava l’uso di erbe, minerali ed animali, non solo per medicare, ma anche per curare l’aspetto esteriore.
Tra i seguaci di Paracelso vi fu il bolognese Leonardo Fioravanti, medico di discussa fama (alcuni critici lo consideravano poco più di un venditore ambulante)  che scrisse il trattato De Capricci medicinalii opera che spaziava dalla medicina alla cosmetica e magia. Un suo consiglio per fare bella la pelle con una polvere “magica”:  triturare ceci, gomma di ciregi, fichi secchi, agarico, hissopo e chiarterra.  Famosi furono anche i consigli e le ricette di salute e bellezza raccolti dalla nobildonna Caterina Sforza Riario (madre del condottiero Giovanni dalla Bande Nere) raccolte nel libro  Liber De Experimentis nel quale si intuisce che l’autrice ha scoperto le proprietà del cloroformio.

Si racconta che a 36 anni, quando la donna del Rinascimento veniva considerata vecchia, Caterina sembrava invece un’adolescente tanta era la forma fisica e la freschezza del viso.
Troppo imbellettate, vedo solo ovunque chiare d’uovo, latte virginale e mille altre bazzecole che non conosco affatto” scriveva Molìere  nelle Preziose ridicole. Ed in effetti, nell’epoca barocca era tutto un “fai da te”: le camere delle signore assomigliavano a laboratori alchimisti, pieni di  pentole, alambicchi, barattoli, pomate, essenze. Con risultati, a volte, molto discutibili. Il Castiglione, nel suo Cortegiano, ridicolizzava la donna che”sta ferma senza grazia, con la faccia impiastrata di crema e cipria sembra che porti una maschera, e non osa ridere per non farsela crepare, né si dimostra mai di colore se non quando la mattina si veste; nel giorno si mostra solo al lume della torcia, come mostrano i cauti mercanti i loro panni  in luogo scuro”.
In questo stesso periodo la cipria raggiunse il massimo della diffusione perché nacque la moda di cospargerla anche su parrucche di uomini e donne, oltre che sul viso e sul corpo.
La chiesa, pur avendo nei monasteri i più avanzati laboratori per la produzione di medicinali, profumi e creme, disapprovava l’uso indiscriminato di cosmetici sia perché, così predicava, la bellezza doveva provenire da Dio, sia perchè molti di essi erano prodotti  senza controlli e con sostanza chimiche devastanti che arrecavano alle donne seri danni alla salute e alla stessa loro bellezza.
Dopo il 1770 diversi produttori di cosmetici sentirono la necessità di eliminare i prodotti pericolosi e si rivolsero all’Accademia delle Scienze creata da Luigi XVI per codificare,  nella produzione, alcuni principi di dosaggio delle  materie prime ricavate per lo più dal mondo vegetale. Andò scemando, contemporaneamente, l’abitudine di autoprodurre in casa creme, ciprie e profumi.
Con il sorgere, alla fine del 18° secolo, delle maggiori industrie della cosmesi (Rubinstein, Arden per esempio), vennero riscoperti antichi  prodotti di bellezza. Non è un  caso che il grande profumiere Francois Coty nel 1917 presentò al mondo due prodotti tuttora in uso, il profumo e la cipria  “Chypre de Coty”.
Personalmente, concordo con gli antichi greci che attribuivano ai cosmetici – e per me in sommo grado alla cipria – il “potere di sistemare” e “abilmente decorare” i nostri visi per fissarne la bellezza quando è al suo  apice o di soccorrerla quando è in declino.
 

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