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Sotto i riflettori: Nina Pennacchi
L'autrice
Nella città degli amori veloci, come è la mia, il romanticismo è considerato demodé.
Non mi importa.
Io sono e resto un'inguaribile romantica, con la testa sempre persa tra le nuvole e il naso sempre immerso in qualche libro.
Una premessa: trovo sempre molto difficile parlare di me. In queste occasioni dimentico di essere una scrittrice e ridivento la bambina che si nascose sotto il banco per non dire il suo nome, in prima elementare :-)
Mi chiamo Nina Pennacchi e vivo e lavoro a Rimini, dove sono anche nata. La mia è la città degli amori veloci, e forse è per reazione che sono diventata un'inguaribile romantica. Da sempre adoro leggere, qualunque cosa, dalla scatola dei cereali ai classici, dai noir ai romance. La mia scrittrice preferita è Jane Austen; innamoratami del suo Mr. Darcy quindici anni fa, gli resto ancora fedele, tranne momentanei sbandamenti per il capitano Wentworth o per l'ispettore Pastor di Daniel Pennac.
Perché ho deciso di scrivere? Perché da sempre, prima di addormentarmi, nella mia mente scorrono immagini, minifilm, personaggi che si muovono, aprono bocca, litigano e interagiscono, e io mi limito a guardarli, ascoltarli, stupita dalle loro parole e personalità.
(Capita solo a me, questa cosa?)
In genere sono storie d'amore, e mi accompagnano tra la veglia e il sonno per la durata di due-tre settimane ognuna. Non ho mai pensato di scriverne, fino a che non sono arrivati Christopher e Anna, i protagonisti di “Lemonade”. Ed erano così... vivi! Ho voluto presentarli al mondo; anzi, no, ho “dovuto” presentarli al mondo.
Di solito si afferma che si scrive per se stessi. Nel mio caso non è così. Se immagino, immagino per me sola; se scrivo, lo faccio per voi lettrici. Forse la mia stupida penna non è in grado di mostrarvi tutto quello che vedo io, ogni piccolo particolare – il modo in cui gli occhi di Christopher brillano mentre scosta i capelli dalla fronte, il buffo cipiglio di Anna prima di fare una ripicca – ma ce l'ho messa tutta, credetemi, per farvi amare i miei personaggi quanto li amo io.
Potete contattarmi, per qualsiasi commento o informazione, scrivendo a:
ninapennacchi@katamail.com
IL LIBRO
Lemonade
Editore: Neftasia
Pagine: 404
Prezzo: € 19,00
Anno di edizione: 2011
ISBN: 9788860381521
TRAMA
Kent, 1826. Christopher Davenport prepara da anni la sua vendetta. E quando si trasferisce a Coxton, paesino della campagna inglese, sa esattamente cosa lo aspetta. Conosce i suoi nemici, e non li teme. Non teme il padre naturale, Leopold DeMercy. Non teme il fratellastro, Daniel. Non teme i fantasmi del suo passato.
E di sicuro non teme la limonata.
Dovrebbe, però.
Oh, milioni di persone vi diranno che è una bevanda innocua e salutare. Non credeteci. Perché basta poco, un attimo di distrazione, per rovesciarne un bicchiere.
E averne la vita sconvolta, come scopre anche la giovane Anna Champion.
Caratteri diversi come il giorno e la notte, Anna e Christopher. Tra loro volano schiaffi, baci rubati, dialoghi al vetriolo e mortificanti scuse. Eppure prima di addormentarsi Anna non può fare a meno di ripensare a quell'uomo arrogante, e Christopher non riesce a dimenticare quell'odiosa strega.
E quando a Coxton si comincia a vociferare di un fidanzamento tra Anna e Daniel, Christopher decide di strapparla al fratellastro con ogni mezzo... anche il più infame.
"La limonata è la bevanda più innocua e salutare di ogni sala da ballo..."
(The London Magazine, 3 luglio 1826)
Beh, forse potrà essere vero a Londra, ma nelle campagne del Kent la limonata nasconde inaspettati pericoli; e il bellissimo e arrogante Christopher Davenport, giunto a Coxton in cerca di vendetta, sta per scoprirlo a sue spese...
Innocua, la limonata? Se lo dite, per piacere, non fatevi sentire da Anna Champion. A causa dell'infida bevanda la sua vita è stata sconvolta, e ora ha un nemico, un nemico implacabile con occhi d'angelo e anima dannata. Tra picche e ripicche, schiaffi e baci rubati, l'attrazione tra i due cresce inconfessata e travolgente. E quando la sorprende in un prato isolato, Christopher non può fare a meno di...
Lemonade” è ordinabile in libreria o acquistabile tramite le librerie on line.
Scheda del libro sul blog personale dell'autrice QUI
ESTRATTO (dal cap.6)
[Dove: una solitaria biblioteca, dove Anna si è rifugiata per sfuggire a Christopher. Antefatto: qualche sera prima, la nostra eroina ha reagito alla scortesia di lui con una piccola ripicca. Ma non è uomo da provocare, Christopher Davenport...]
«Finalmente ci parliamo da soli, Anna» mormorò Christopher, muovendosi verso di lei.
Anna indietreggiò di colpo, senza riflettere. E, inevitabilmente, sbatté la schiena contro lo scaffale della libreria. Un urto forte, doloroso. E mortificante. Christopher sogghignò, e lei sentì con orrore che alcune lacrime le riempivano gli occhi. Le ricacciò indietro, stringendo i denti e i pugni. «Non permettetevi di usare il mio nome proprio» disse gelida. La voce suonò forse un po’ debole. Ma uscì, e tutto sommato questo era l’importante.
Lui sorrise divertito. «Oh, davvero?» la canzonò, fermandosi di fronte al tavolo che li separava. «E dimmi, Anna, come pensi di impedirmelo?» Posò le mani sul legno, e cominciò a spostarsi di lato, come per aggirare l’ostacolo.
No, non doveva avvicinarsi a lei. Non si sarebbe limitato a parlarle, Anna ne ebbe l’improvvisa certezza. (E allora, cosa...?) Non lo sapeva, ma doveva uscire da lì, e di corsa. Guardò verso la porta, valutando la possibilità di raggiungerla. (Piuttosto remota, realizzò con lucido spavento, rapportata alla lunghezza delle gambe di lui.)
Christopher sembrò leggere i suoi pensieri, e si fermò. «Ho tutti i diritti di chiamarti come mi pare, Anna Champion.» La sua voce era offensiva, dura. «Tu invece non avresti nessun diritto di stare in questa casa, se non sotto forma di cameriera.»
Quella frase – la frase di un ridicolo snob – era talmente prevedibile che in un’altra occasione l’avrebbe considerata uno scadente tentativo di fare dell'ironia. «Non avrei nessun problema se facessi la cameriera, qui o altrove» replicò nauseata. Il cuore le batteva in gola, ma fortunatamente non interferiva con il lavoro delle sue corde vocali. Quasi per niente, almeno. «Rimarrei io in ogni caso. Ma cosa rimarrebbe di voi, senza i vostri abiti eleganti? Nulla, come l’uomo che siete.»
Per qualche istante Christopher la fissò in silenzio, stupito. «Uomo da nulla, capisco» mormorò infine. Abbassò la testa e si guardò le mani poggiate sul tavolo; poi rialzò gli occhi verso di lei, e Anna seppe che il suo istinto non si era sbagliato: quell’uomo era davvero pericoloso. Guerra, era la promessa che leggeva nei suoi occhi. Guerra, guerra deliberata, razionale, e per questo ancora più terrorizzante. La guerra di un soldato che ne ha già viste mille.
(Scappa, Anna.)
Con una velocità sbalorditiva per un fisico così imponente, Christopher fece pressione su una mano, sollevò le gambe, e scavalcò il tavolo. Anna se lo trovò accanto senza quasi capire come, e guidata solo dal panico fuggì; lui la rincorse lungo la scansia e la spinse mentre lei correva, mandandola a sbattere contro lo scaffale. Anna colpì il fianco sinistro rischiando di cadere; riuscì a mantenere l’equilibrio e si voltò verso di lui, alzando una mano davanti a sé. «Siete pazzo!» gridò sconvolta. Quasi non sentiva il dolore del colpo, tanto era il terrore. «State lontano da me!»
Erano vicinissimi: se lui avesse allungato la mano, l’avrebbe toccata, e se Anna avesse provato a fuggire, l’avrebbe raggiunta. La paura quasi le appannò la vista. Santo cielo, quell’uomo era un violento, era davvero un violento! «Statemi lontano, o chiamo aiuto!»
La calma che gli vide sul volto la atterrì, e si sostenne agli scaffali in cerca di un appoggio. Ma chi diavolo sei, Christopher Davenport?
«Non ti sentiranno, Anna» rispose lui. La sua voce era dolce, ragionevole. «Siamo un po’ lontani dal salone, ti pare? E la musica sembra essere così alta, là.»
Lei cercò di respirare, mentre l’angoscia le sbatteva nella testa confondendole i pensieri. Non devo svenire! Non qui, non tra le sue mani! Si morse forte le labbra, e il dolore l’aiutò a rientrare in sé. Con la voce spezzata da un accenno di pianto, tentò di nuovo: «Potrebbe entrare qualcuno da un momento all’altro!»
«Oh, non credo. Nessuno va in biblioteca durante una festa, non è vero? Tranne le ragazze molto, molto sciocche, ovviamente.» Sorrise. «Inoltre quella cara Louise – una persona splendida, non trovi anche tu? – presterà la massima attenzione affinché nessuno capiti da queste parti. E in ogni caso» le si avvicinò di un piccolo passo «il rischio mi piace. Moltissimo. E, a giudicare da come mi hai sfidato finora, credo piaccia anche a te. Non è così?» La distanza tra loro era minima, e la sua figura imponente le torreggiava addosso enorme e scura. Disperata, Anna volse il capo, in cerca di una via d’uscita.
«Non ci pensare neanche» la avvertì lui, piatto. «Potresti farti molto male.» Aveva sul viso un’espressione tranquilla, mondana, come se stessero tenendo una perfetta e piacevole conversazione. Indietreggiò leggermente, dandole un po’ di respiro.
Tentando di ignorare il dolore al fianco e il pulsare delle tempie, Anna gli chiese in un sussurro: «Cosa volete da me?»
La voce le tremava così violentemente che ne uscì solo un suono aspro e inintellegibile, ma in qualche modo lui comprese le sue parole. «È una strana domanda, questa» rispose con ostentato stupore. «Voglio solo terminare la nostra interessante chiacchierata, ovviamente. Del resto, non puoi davvero sperare che io voglia... altro... da te.» Fece una pausa, soppesandola con lo sguardo. «Mi dispiace aver ferito i tuoi sentimenti» aggiunse con espressione contrita «ma le ragazze brutte non mi interessano.»
Anna si sentì accecare dall’indignazione. Strana emozione, questa. Nasce anche nelle situazioni più spaventose, se qualcuno ti colpisce nel vivo. E ti fa ritrovare la voce anche quando il buonsenso ti suggerirebbe di non usarla. «Non vorrei mai piacere a un uomo come voi!» Piena, disgustata, urlata: la sua vera voce, per la prima volta da quando Christopher l’aveva sorpresa là dentro.
Lui non ne fu particolarmente impressionato, comunque. «Immagino» rispose beffardo.
Anna tremò di ira repressa, e grosse lacrime le si formarono negli occhi. Non tentò neppure di nasconderle. «Siete solo un piccolo, lurido vigliacco, Christopher Davenport! Picchiatemi pure se volete, ma io dirò a tutti... tutti sapranno...»
«Sapranno cosa, Anna?» Il tono di lui era sussurrato, carezzevole. «Mmmh? Vuoi dire alla tua amica che sua madre si stava per concedere a me... su questo tavolo?»
Lei si sentì cadere il cuore. Non poteva ferire Lucy, era vero. Semplicemente, non poteva. «Io... io...»
«Se tu raccontassi il piacevole episodio di poco prima, scoppierebbe uno scandalo, lo sai. E non potresti più fare la cagnolina» pronunciò questo termine con lentezza, come scandendolo «della signorina Edwards, non credi? Lei ti odierebbe. Prova a ragionare, Anna. Del resto, una come te dovrebbe saper far bene i suoi calcoli.»
Anna si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Maledetto. Era un maledetto. «Racconterò di quel che avete fatto a “una come me”, dunque» rispose in un sussurro.
Queste parole parvero divertirlo. «Ma io non ti ho fatto niente, sciocchina» replicò con condiscendenza. «Vuoi raccontare di questo nostro piccolo scambio di opinioni? Io negherò. O magari dirò che mi hai atteso qui» le fissò il seno, di nuovo «e poi ti sei offerta a me.»
Anna rimase così scioccata che le lacrime smisero di scenderle sulle guance. «Nessuno... nessuno crederebbe...»
«Davvero?» Riportò lo sguardo al suo viso, con l’espressione compiaciuta di chi sta per banchettare a tue spese. «Io penso di sì, invece. Vedi, io non ho molto da perdere, a rimanere qui da solo con te. Ma per te è diverso, no? Sei una donna – oddio, più o meno – e basta così poco per rovinare la reputazione di una donna...» Sospirò enfaticamente. «Crudele, non trovi?»
Non mi importa! Oh, avrebbe voluto urlarlo, Anna. Avrebbe voluto dirgli che quello che pensava il mondo di lei era ininfluente, avrebbe voluto dirgli che le sue menzogne non le facevano paura. Ma alcune voci infantili le risuonarono nella mente, gioiose – i suoi fratellini; e suo padre, se avesse saputo... «Io.. io... ve la farò pagare...» poté dire soltanto. Con sforzo. Con parole bloccate nel gonfiore che l’impotenza le creava in gola.
«No, non credo» rispose Christopher. E improvvisamente il suo viso divenne serio. Dispiaciuto, quasi. «Credo anzi che diventerai molto gentile con me, adesso.»
Mosse un passo, e annullò la distanza fra loro. Anna gridò e lo respinse con le mani; lui le afferrò i polsi, e glieli sbatté contro la scansia alle sue spalle.
«Non mi toccate!»
Christopher le si fece addosso. Con un terrore mai provato, Anna sentì il corpo di lui appoggiarsi al proprio. La superava di almeno venticinque centimetri, e fu imprigionata totalmente dalla sua mole e dalla sua forza. E dal suo calore, che l’avvolse come una coperta d’inverno.
«No!» Anna tentò furiosamente di liberarsi, mentre il cuore le sbatteva più pazzo di una mosca che si lancia contro il vetro. «Lasciatemi!»
Non riuscì a smuoverlo di un solo millimetro. Christopher sembrò non notare neppure i suoi movimenti disperati. «Shhh» le bisbigliò. (E Anna sentì le sue gambe cedere. Se non cadde, fu solo perché era incatenata a lui.) «Non fare rumore, sciocchina. Non vorrai che qualcuno ci scopra in questa posizione.»
Mai aveva avuto un uomo così vicino, mai ne aveva sentito i muscoli al di sotto degli abiti, il respiro caldo, l’odore. Erba appena tagliata, menta, e qualcosa di simile alla cannella, questo era il lieve aroma di lui, e inaspettatamente delicato si mischiava con il proprio. Anna, indebolita, cominciò a singhiozzare senza ritegno, abbassando il capo, appoggiando la fronte alla sua giacca.
«Sai cosa succederebbe, se qualcuno entrasse adesso?» La domanda di Christopher fu un sussurro tiepido sulla sua testa. «Nessuno ti sposerebbe più, Anna... e dovresti... dovresti rinunciare...» Si interruppe, facendo un profondo respiro; poi riprese a parlare con voce non del tutto ferma: «Dovresti rinunciare a trovare un marito ricco... quello a cui tieni tanto, non è vero...?»
Lei riuscì a scuotere la testa.
«No?» chiese lui, dolcemente.
Il suo corpo, adagiato su quello di lei, spingeva con calore, prepotenza, e Anna lo sentiva contro il seno, contro il ventre, e più in basso, in mezzo alle gambe, dove le premeva indecente e deliberato. «Non sapete nulla di me» singhiozzò. «Lasciatemi andare!»
Christopher la schiacciò di più contro la libreria. «Questi uomini non ti sposeranno mai» le mormorò, e la sua voce suonò spaventosamente roca. «Loro... loro, da te, prenderanno tutto, tutto... e ti lasceranno...»
Il suo respiro le si irradiava addosso, e il contatto con il suo corpo era caldo e invadente. Le stringeva i polsi, le faceva male, ma era dove risultava carezzevole che terrorizzava Anna, e la paura che provocava non aveva niente a che fare con il dolore. Era una paura nuova, che le rimescolava il basso ventre e le rendeva le gambe morbide come purè di patate. Era la paura più indefinibile che avesse mai provato, un miscuglio di agonia e languore. «Lasciatemi andare» chiese, piangendo senza dignità. «Vi prego, vi prego, signor Davenport... lasciatemi andare...!» Le parole le uscirono a scatti, dolorosamente.
«Mi stai pregando, Anna?» Sottovoce, morbido... tenero, quasi. Poggiò le labbra sul suo capo, facendola sussultare. «Credevo che non ne fossi capace.» Affondò il viso nei suoi capelli, respirandone il profumo. Lei, chiuse gli occhi. Sconfiggerla, questo voleva quell’uomo. E allora non reagì. Non si mosse, non tentò di scacciarlo, e lui ristette in quella posizione per un tempo che le sembrò lunghissimo. Il silenzio della stanza era scandito dai loro respiri irregolari, e dai battiti agitati dei loro cuori.
(Lo senti, il suo cuore, Anna? Corre veloce quanto il tuo, non è vero?)
Correva, sì. Correva, e Christopher allentò la stretta sui suoi polsi. Poi, li lasciò andare. Le ricaddero a lato del corpo, ma lei non riprese a lottare. No; rimase immobile. Come lui voleva. E quando sentì che le posava una mano sul fianco, e l’altra sui capelli, glielo permise. In silenzio. Gli permise di muovere le dita tra i suoi riccioli, e accarezzarli piano. E mai, mai, ci fu tenerezza altrettanto crudele...
«Brava, piccola» le sussurrò infine Christopher, e rialzò la testa. «Vedo che hai capito.» Si scostò quel tanto che bastava per guardarle il viso chinato e in lacrime. «Ti lascerò andare, dunque. Per questa volta.» Indietreggiò di un passo, di scatto.
Anna, stordita, non seppe che fare. Poteva davvero andare? Tremando, non riuscì a sollevare la testa.
«Puoi andare» le ripeté lui.
Era finito? L’incubo era finito? Si riscosse, voltandosi velocemente. Via di lì, subito! Subito, prima che cambiasse idea, prima che...
La mano di lui le afferrò il polso sinistro, e Anna si fermò senza lottare, svuotata. Stava solo giocando con lei, comprese. Come il gatto con il topo. «Avevate detto che potevo andare!» protestò con voce rotta.
«È vero» confermò Christopher con un sorriso che sembrò quasi dolce. «Prima, però, devi porgermi le tue scuse.» Le lasciò andare il polso, e il braccio le ricadde pesantemente a fianco del corpo.
Per un lungo istante Anna non riuscì ad afferrare il senso di quelle parole. Poi, capì. Non gli è ancora bastato, realizzò con lucidità. E realizzò anche che, seppure in modo pazzo, c’era una logica – assurda logica – in quel che lui stava facendo. Vuole umiliarmi, completamente, totalmente. «Volete delle scuse» ripeté, atona. Scuse. Lei, a lui. Ovvero, il mondo rovesciato di Christopher Davenport.
Lui annuì, con la derisione negli occhi. «Oh, solo poche parole» le spiegò con gentilezza «e poi potrai uscire di qui.»
La porta era così vicina. La sua liberazione era così vicina. Solo poche parole. «E poi potrò uscire.» Le sembrò di non poter far altro che echeggiare le sue frasi; si sentiva incapace di ragionare.
«Hai la mia parola» le garantì Christopher. «Non sarà difficile, Anna, vedrai – neanche per una come te.»
Una come me.
«Solo poche parole» ripeté lui. «Non ti chiederò neppure di inginocchiarti. Dovrai soltanto guardarmi in faccia e dire: “Mi dispiace di avervi mancato di rispetto, signor Davenport.”»
Mi dispiace di avervi mancato di rispetto, signor Davenport. Quanto poteva essere difficile, in fondo?
L’indole combattiva che l’aveva sempre caratterizzata era sparita, spenta nella prima vera sconfitta della sua vita; nella debole luce della stanza – mentre le fiamme delle candele facevano strane danze, e le ombre dei libri si muovevano con loro – era solo una ragazza disfatta, con le guance bagnate, il naso che colava, il volto distrutto, umiliato.
Christopher si ergeva di fronte a lei, alto, arrogante; la sua forza era di troppo sovrastante; impossibile anche solo pensare di poter resistere. I suoi capelli scuri avevano riflessi blu alla luce delle candele; il suo viso era un ghigno beffardo.
«Vedi, Anna, forse potrei fare a meno delle tue scuse» ammise, dispiaciuto. «Ma purtroppo» aggiunse, con il tono paziente che avrebbe usato con una bambina molto piccola, e molto stupida «le persone come te devono essere rimesse al loro posto, ogni tanto.»
Il mio posto.
E all’improvviso, come uno squarcio di luce in un cielo notturno, Anna capì che aveva ragione lui. Pienamente ragione. Il suo posto non era quello, ah no – per fortuna no! – no, il suo posto era a casa da chi l’amava, da chi si illuminava solo guardandola, da chi la riteneva perfetta, da chi anche in quel momento la stava aspettando–
Cosa ci faceva lì? Cosa ci faceva in quella biblioteca in penombra, con quell’uomo folle?
Cosa ci faceva tra quei pazzi, assurdi, boriosi–
«Sto aspettando, Anna.»
Lei annuì, chiudendo gli occhi. Mancava così poco alla fine dell’incubo. Tra poco sarebbe stata fuori da quella stanza buia, alla luce, e poi via di corsa, a casa, dai suoi fratellini, da suo padre, dimenticando–
Mi dispiace di avervi mancato di rispetto, signor Davenport.
«Andate al diavolo, signor Davenport» disse, riaprendo gli occhi.
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