Esce il nuovo romanzo di Franco Forte: Caligola-Impero e follia.
Il LIBRO
Ha appena cinque anni, Gaio Giulio Cesare, quando il padre decide di portarlo con sé per una campagna militare nelle terre da cui ha preso il suo nome: la Germania. Perché suo padre è Germanico, il più potente e acclamato generale di Roma. L'uomo che molti vorrebbero incoronare imperatore, al posto dell'odiato e temuto Tiberio. Il comandante che non ha paura di nulla, tranne che di un essere umano: la moglie, Agrippina, nipote di Augusto, la madre dei suoi figli.
Tra loro c'è Gaio, che non ama il suo nome e preferisce il soprannome che gli hanno dato i suoi amici legionari, cui procura schiave e divertimenti, ottenendo in cambio di essere accolto nel loro gruppo e ricevere i loro duri insegnamenti. Quel soprannome che prende origine dalle calzature militari troppo larghe che ha sempre ai piedi, le caligae. Quel soprannome che porterà con sé per tutta la vita: Caligola.
E quando suo padre Germanico viene avvelenato ad Antiochia, la terza città più grande del mondo, il piccolo Caligola giura che avrà la sua vendetta. È in quel momento che capisce che essere amato non basta, che essere un grande guerriero non è sufficiente, che il vero potere risiede nelle informazioni. Per questo impara ad attraversare non visto i corridoi dei palazzi imperiali, dove viene a conoscenza di trame, intrighi e congiure, ordite da uomini assetati di potere e da donne crudeli e disinibite. Sotto il sorriso maligno del vecchio Tiberio, che pare avere stretto un patto con gli dèi, tanto si mantiene lucido, energico e spietato anche in vecchiaia. Così il piccolo Caligola intraprende il percorso che lo porterà a sedere sul trono dell'Urbe. Un percorso lungo, pieno di ostacoli, in cui la tentazione della vendetta deve essere sempre temperata da prudenza e astuzia. Un percorso che farà sì che sarà lui, non suo padre, non i suoi fratelli, il nuovo imperatore di Roma.
Restituendo gli intrighi, le alleanze sempre pronte a mutarsi in tradimento, la lussuria e l'avidità della Roma imperiale, che nelle pagine di “Caligola - Impero e follia” non ha nulla da invidiare alle capitali delle "Cronache del Ghiaccio e del Fuoco" di George R.R. Martin, Franco Forte scrive un romanzo straordinario, che reinventa, con taglio originale e moderno, il mito dell'imperatore più odiato della storia. Dando voce, per una volta, alla sua versione.
L'AUTORE
Franco Forte nasce a Milano nel 1962. Giornalista, traduttore, sceneggiatore, editor delle collane edicola Mondadori (Il Giallo Mondadori, Urania e Segretissimo), ha pubblicato i romanzi Caligola – Impero e Follia, Ira Domini, Il segno dell’untore, Roma in fiamme, I bastioni del coraggio, Carthago, La Compagnia della Morte, Operazione Copernico, Il figlio del cielo, L’orda d’oro – da cui ha tratto per Mediaset uno sceneggiato tv su Gengis Khan –, tutti editi da Mondadori, e La stretta del Pitone e China killer (Mursia e Tropea). Per Mediaset ha scritto la sceneggiatura di un film tv su Giulio Cesare e ha collaborato alle serie “RIS – Delitti imperfetti” e “Distretto di polizia”. Direttore delle riviste Romance Magazine (www.romancemagazine.it) e Writers Magazine Italia (www.writersmagazine.it), ha pubblicato con Delos Books Il prontuario dello scrittore, un manuale di scrittura creativa per esordienti giunto alla settima edizione. Il suo sito è www.franco-forte.it.
INTERVISTA A FRANCO FORTE SU “CALIGOLA – IMPERO E FOLLIA”
Il 1° giugno 2015 Franco Forte, apprezzato scrittore di romanzi storici, direttore editoriale delle collane da edicola Mondadori (Gialli, Urania e Segretissimo), nonché direttore responsabile di importanti riviste letterarie quali la Writers Magazine Italia (www.writersmagazine.it), è tornato in libreria con il suo nuovo romanzo, “Caligola – Impero e Follia” (collana Omnibus Italiani), il primo al mondo che ci rivela chi sia stato davvero questo imperatore tanto bistrattato dagli storici antichi e che la storiografia moderna ha rivalutato, al pari di quanto accaduto con Nerone. Ma di cosa parla esattamente questo libro? Chiediamolo direttamente all’autore, Franco Forte.
Dopo due thriller storici ambientati nella Milano del 1500, sei tornato nella Roma imperiale, per occuparti, ancora una volta, di un imperatore molto controverso. Come recita la quarta di copertina del tuo libro, Caligola è “l’imperatore più temuto, più odiato, disprezzato.” E questa, ci dici ancora, “è la sua versione della storia…”
Esatto, proprio così. Quando si affronta il mondo antico, la prima cosa da fare è interpretare le fonti, non limitarsi a seguire pedissequamente quello che hanno scritto e ci hanno lasciato in eredità. Gli storici moderni lo stanno facendo con impegno, e negli ultimi cinquant’anni sono emerse verità sorprendenti rispetto a tanti imperatori romani bistrattati dalle fonti storiche primarie (mi riferisco soprattutto a storici come Svetonio, Tacito, Dione Cassio e altri). Sulla base di queste reinterpretazioni sto cercando di descrivere da vicino alcune tra le figure più controverse e inquietanti della storia, come ho fatto con Nerone nel romanzo “Roma in fiamme” e, adesso, Caligola. Un lavoro divertente, che mi ha impegnato molto in termini di studio, ma che credo potrà dare una nuova dimensione a questi personaggi, facendo scoprire lati del loro carattere e della loro personalità inediti e per certi versi sorprendenti.
Davvero si tratta del primo romanzo al mondo che racconta la vita di questo imperatore?
Lo è senz’altro se parliamo di romanzi e se ci riferiamo a quello che dicevo prima, ovvero alla rivisitazione storica che gli studiosi hanno dato di Caligola. Su questo imperatore ha scritto Albert Camus, ma per il teatro. Andrea Frediani, nel suo libro “Dinastia”, ha scritto anche di Caligola, ma si è limitato, come tutto quel libro, e romanzare la “Vita dei Cesari” di Svetonio e poco più, e comunque inserendo Caligola all’interno di un romanzo corale sulla vita di cinque imperatori della dinastia Giulio-Claudia. Il mio è il primo romanzo su Caligola interamente dedicato a questo particolarissimo personaggio, dopo uno studio attento delle nuove interpretazioni dei lasciti storici effettuate dagli studiosi moderni, che hanno modificato radicalmente l’immagine barocca e surreale che autori antichi come Svetonio ne avevano dato nei loro scritti, più che altro per dileggiare un imperatore che, come dico nel sottotitolo del mio romanzo, ha letteralmente umiliato Roma, andando contro l’aristocrazia romana a cui lo stesso Svetonio apparteneva.
Un’operazione di discredito che è durata più di duemila anni…
Come detto, storici antichi quali Svetonio, Tacito, Cassio Dione, rappresentavano, a posteriori, la voce di quella stessa aristocrazia che imperatori come Caligola e Nerone avevano combattuto e umiliato, e dunque è stato gioco facile, per loro, lasciare ai posteri solo accuse, menzogne e parole sprezzanti nei confronti di imperatori che certo santi non erano, ma di sicuro avevano agito in modo ben più razionale e consapevole di quanto la Storia antica abbia tramandato nei secoli. E con Caligola, ancor più che con Nerone, il gioco di damnatio memoriae è stato ancora più pesante e insistito, forse perché Caligola ha fatto davvero paura a molti. Farò un solo esempio per fare capire la situazione. Quando Svetonio si fa beffe di Caligola dandogli del pazzo furioso che arrivò a nominare senatore il suo cavallo, si guarda bene dal chiarire che cosa sia successo davvero. E le nuove ricostruzioni storiche ce lo fanno capire: Caligola arrivò a dire che il Senato era così marcio e corrotto, pieno di gentaglia di così basso profilo, che la nomina del suo cavallo a senatore non avrebbe fatto altro che arricchire il consesso della Curia romana. Si trattava quindi di un gesto di spregio verso l’aristocrazia dell’Urbe, non certo dell’azione di un pazzo come Svetonio ha cercato di farci credere. E questo vale per gran parte delle azioni commesse da Caligola e, dopo di lui, da Nerone.
Come si può raccontare un simile personaggio dalle pagine di un romanzo?
In questo libro sfrutto una tecnica particolare, facendo assumere al lettore il punto di vista di Caligola fin dalle prime righe, per non abbandonarlo più. Restiamo con lui per tutto il suo percorso di vita, fin da quando, da bambino, era in viaggio per i confini dell’impero insieme al padre, il grande generale Germanico. Un percorso lungo e difficile, che l’ha visto lottare per sopravvivere allo sterminio della sua famiglia. E quando finalmente è arrivato al potere, si è dimostrato tutt’altro che un pazzo. Era animato da un profondo desiderio di vendetta nei confronti di coloro che avevano ordito contro di lui e l’intera dinastia Giulio-Claudia, come il Senato e l’aristocrazia romana, oltre al precedente imperatore Tiberio, e che si sono spinti a uccidere suo padre, sua madre Agrippina Maggiore, i suoi fratelli Nerone Cesare e Druso e l’amatissima sorella Drusilla. E’ sopravvissuto a una vera e propria strage, e quando è arrivato il momento si è preso la sua rivincita.
Perché Gaio Giulio Cesare Germanico venne soprannominato Caligola?
Da bambino era stato portato dal padre, Germanico, nei territori a nord del Reno, dove si spingevano i confini dell’impero, e Gaio, vivendo in mezzo ai soldati, volle cercare di sembrare uno di loro. Quando sua madre gli regalò delle caligae, le calzature tipiche dei legionari, lui le indossò e non se le tolse più, anche se erano molto più grandi della sua misura, fiero di poter vestire come un vero soldato. E divenne una sorta di mascotte dei legionari, che amavano suo padre e poi video in lui un naturale erede, cosa che gli servì per sopravvivere quando, anni dopo, Tiberio sterminò la sua famiglia, perché toccare Caligola avrebbe significato toccare il ricordo di Germanico, che viveva ancora glorioso nel ricordo del popolo e dei soldati romani. Gaio Giulio Cesare Germanico volle farsi chiamare Caligola in ricordo agli anni spensierati della sua gioventù, e per fare capire a tutti che lui era il figlio di Germanico, degno erede della dinastia Giulio-Claudia e candidato a diventare imperatore di Roma.
L’ESTRATTO
Capitolo 1
Selva di Teutoburgo - Germania
17 d.C. – 770 ab Urbe Condita
Caligola non ha ancora cinque anni
<<Guarda questa terra, Gaio. Vedi come è grassa e rigogliosa, sotto lo strato di foglie? Sai perché è così, anche se in questa foresta il sole non attraversa quasi mai le chiome degli alberi?>>
Il bambino sollevò il naso verso l’alto e osservò l’intrico vegetale che li sovrastava, così fitto da stendere un manto d’ombra perenne sul vasto sottobosco, rendendolo ancora più cupo e spaventoso di quanto già non fosse. C’era uno strano odore, nell’aria, che Gaio Cesare Germanico non riusciva a identificare, ma che era sicuro avesse a che fare con le domande che gli erano state rivolte dal padre.
Restò a pensarci per un po’, in realtà distratto più dai suoni dei misteriosi animali che popolavano la foresta e dal fragore dei legionari in marcia, che concentrato sulla corretta risposta da fornire a Germanico, poi si strinse nelle spalle ossute.<<No>> confessò. <<Non lo so.>>
Il padre lo fissò con una strana espressione, che Gaio gli aveva visto solo quando era molto preoccupato o, peggio, quando era pronto a sgridarlo per qualcosa che aveva fatto, magari disobbedendo a un ordine diretto, ma poi aprì un mezzo sorriso, addolcendo il viso spigoloso, dai tratti forti e decisi, che riusciva a intimorire chiunque fosse costretto ad affrontarlo.
Tranne la mamma, pensò Gaio. Agrippina era la sola che sapesse mettere in difficoltà il grande Germanico, comandante delle legioni romane sul Reno, temuto dai suoi nemici e amato dai legionari, che avrebbero dato la vita, per lui.
<<E’ importante che tu lo sappia>> continuò il padre posandogli una mano sulla testa e sfregandogli i capelli. <<Se vuoi diventare un guerriero forte e rispettato dai compagni, un valido generale capace di guidare gli uomini in combattimento, allora devi conoscere le ferite che ancora sanguinano sul corpo di Roma.>>
Gaio sgranò gli occhi, sorpreso. Non aveva creduto che si trattasse di una cosa così importante. Tornò a guardarsi attorno, aguzzando gli occhi nella penombra del sottobosco, ma non vide nulla e si maledisse per la propria stupidità. Indispettito, diede un colpo sul terreno con una delle caligae che calzava fin dal giorno in cui sua madre, per gioco, gliele aveva fatte indossare, anche se quelle calzature erano enormi e lo impacciavano nei movimenti, poi sollevò uno sguardo mesto sul padre.
Ma Germanico non lo stava guardando. Si era eretto in tutta la sua statura, e la sua figura imponente era rivolta verso nord, là dove la foresta di Teutoburgo si faceva più fitta e impenetrabile. Dietro di loro le legioni al comando di suo padre marciavano a ranghi serrati, e il terreno vibrava sotto i piedi di Gaio, trasmettendogli quel senso di forza e di sicurezza che lo aveva accompagnato fin dalla nascita, durante i viaggi con i genitori in quelle terre barbariche.
<<Se affondi le mani nel terreno vedrai che è molto scuro, e che i vermi brulicano, cibandosi del sangue di cui è impregnato.>>
Germanico aveva parlato a voce bassa, ma lui era riuscito a sentirlo benissimo. Eccitato come non mai si piegò verso il basso, e senza avere il coraggio di toccare lo strato di foglie che formava un mantello perenne sulla selvaggia terra di Germania, cercò di riconoscere il sangue di cui aveva parlato suo padre.
<<Se lo annusi, se lo assaggi, capirai che si tratta di sangue romano>> continuò Germanico con voce grave, mentre i legionari sfilavano dietro di loro, accompagnati solo dal pulsare ritmico delle caligae sul terreno. <<Qui sono morti migliaia di soldati, massacrati dai barbari guidati da Arminio. Tre intere legioni, comprese sei coorti di fanteria e tre ali di cavalleria ausiliaria, sono state annientate in questa foresta. In soli tre giorni sono morti più di quindicimila legionari, compreso il loro comandante, il valoroso Publio Quintilio Varo.>> Fece una breve pausa, durante la quale Gaio cercò di immaginare come dovessero apparire quindicimila soldati massacrati e ammassati sul terreno, poi continuò, voltando lo sguardo su di lui: <<Ci furono dei superstiti, naturalmente, ma vennero quasi tutti sacrificati alle divinità delle tribù barbare che ci avevano sconfitto.>>
Gaio si sentì inondare dalla rabbia e dall’indignazione.
<<Tu li hai vendicati, vero padre?>>
Germanico esitò un istante, prima di rispondere, poi gli scompigliò ancora i capelli, con una mossa forse fin troppo rude, che quasi lo fece cadere a terra.
<<Sono tornato qui qualche anno fa, grazie alle indicazioni dei pochi superstiti al massacro, e abbiamo recuperato ciò che restava dei nostri uomini.>> Fece un sospiro, e tornò a guardare nell’intrico della vegetazione. <<Non hai idea di quello che abbiamo trovato. Ovunque c’erano mucchi di ossa, spolpate dagli animali della foresta, e sui tronchi degli alberi erano state inchiodate le teste di centinaia di legionari, che ormai giacevano come teschi scarnificati. E poi… poi c’erano gli altari.>>
Si interruppe, e Gaio trattenne il fiato. Anziché chiedergli di continuare, sentendo che non sarebbe riuscito a parlare, gli afferrò un lembo della veste e tirò un paio di volte.
Germanico parve riscuotersi, lo guardò accigliato, sembrò esitare ancora, ma poi continuò: <<Avevano eretto dei rozzi altari di pietra e legna, su cui avevano sacrificato ai loro dei i nostri tribuni e tutti i centurioni su cui erano riusciti a mettere le mani. Un monito per le legioni di Roma e per i loro comandanti.>>
Gaio esalò il respiro che aveva trattenuto fino a quel momento e strinse i pugni.<<Dobbiamo vendicarli!>> gridò.
<<Tu non farai proprio niente>> intervenne una voce alle loro spalle, e Gaio sussultò per la sorpresa. Si voltò e corse incontro alla madre, che era scesa dalla portantina e si era avvicinata a passo felpato, tanto che lui non l’aveva nemmeno sentita. O forse era stato così preso dal racconto del padre che non si sarebbe accorto nemmeno se lei l’avesse preso fra le braccia e sbaciucchiato sul collo, come faceva fin troppo spesso, per i suoi gusti.
<<Qui c’è il sangue dei legionari, quelli da vendicare, tutti!>> esclamò rischiando di inciampare nelle caligae. Agrippina lo afferrò al volo prima che finisse con la faccia tra le foglie umide del sottobosco. E impregnate di sangue!
<<Tuo padre è qui per questo, e stai sicuro che sa fare bene il suo lavoro>> lo tranquillizzò lei, sollevandolo in braccio e fissando Germanico con una strana smorfia.
<<Era giusto che sapesse>> si limitò a dire il padre, reggendo lo sguardo di Agrippina.
Lei non rispose nulla, finché la sua espressione si addolcì e le sue labbra scesero verso il collo lungo ed esile di Gaio.
<<Basta baci!>> protestò lui allontanandola e guardandosi attorno per capire se qualche soldato li avesse visti. Si vergognava di quelle effusioni da parte della madre, che lo facevano sembrare ridicolo di fronte ai legionari.
<<Indossi ancora questi calzari?>> gli chiese lei osservando le enormi caligae che aveva ai piedi. <<Non rischi di inciampare?>>
<<No!>> ribatté lui dibattendosi finché Agrippina non lo rimise a terra. <<Io sono un soldato! Come papà!>>
Restò a fronteggiare i genitori pronto a dare battaglia, mentre l’odore del sangue dei legionari che erano caduti in quella foresta gli riempiva le narici, adesso sì forte e ben percepibile.
Agrippina e Germanico si scambiarono un’occhiata, poi scoppiarono a ridere, e Gaio si sentì arrossire fino alla radice dei capelli.
Avrebbe preferito di gran lunga una schermaglia, che avrebbe affrontato da vero legionario, pronto a versare il proprio sangue insieme a quello dei quindicimila che erano stati massacrati nella selva di Teutoburgo, piuttosto che sentirsi ridicolizzato in quel modo.
Colmo di rabbia e di vergogna scappò via, barcollando sulle caligae troppo grandi e deciso a nascondersi per sempre nel fitto della foresta, dove avrebbe dato la caccia ai barbari di Arminio uccidendoli a uno a uno, fino a quando vendetta non fosse compiuta.